di Anna Foti – Ha smesso di battere domenica 3 agosto il cuore di Alexander Solzhenitsin, lo scrittore russo contemporaneo maggiormente conosciuto, straniero in patria ma apprezzato nel resto del mondo. Un romanzo lungo 89 anni la cui parola fine è stata posta da un infarto che lo ha colpito proprio nella Russia che lo ricusò a cui Solzhenitsin, spirito impavido e dissidente nell’Unione Sovietica degli anni ’60, aveva fatto ritorno nel 1994. Una penna che denunciò le vergogne del regime comunista, interpretando la scrittura come missione e servizio e sacrificando sull’altare della verità e della dignità la propria cittadinanza e la propria libertà di vivere e scrivere nel paese di origine. Premio Nobel per la Letteratura nel 1970, egli pubblica il suo primo romanzo breve nel 1961, “Una giornata di Ivan Denisovic”, ponendo in luce le violazioni dei diritti umani perpetrate nelle strutture detentive sovietiche, le nefandezze compiute nei campi di concentramento staliniani, nonostante l’Unione Sovietica avesse ratificato il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
Una drammatica quotidianità che lo stesso Solzhenitsin aveva vissuto nel decennio in cui fu recluso nel 1945.
Una denuncia instancabile contro il potere sovietico dimentico della dignità umana che tornò ad echeggiare con “Divisione Cancro” nel 1967, “Il primo cerchio” nel 1969 e con l’opera in tre volumi “Arcilelago Gulag” nel 1974. Un talento letterario che preferì l’impegno alla pura velleità di pubblicare, che scelse di raccontare la realtà e la storia piuttosto che la finzione e che poi fu premiato dal suo governo con la condanna. Arrestato ed espulso dal governo sovietico e privato della cittadinanza nel 1974, per avere pubblicato all’estero le proprie opere e avere dunque amplificato la sua denuncia ben oltre i confini del paese in cui si consumavano quelle ingiustizie, egli visse altrove la propria vita. Vinse il Nobel per una popolarità raggiunta nel solo Occidente dove riuscì a pubblicare i suoi scritti. Dopo l’espulsione dall’Unione Sovietica, contro la quale ebbe luogo anche una mobilitazione di protesta sostenuta anche da Amnesty International, fu la volta della Germania, poi della Svizzera e infine degli Stati Uniti. In nessun luogo, tuttavia, si placò la forza della sua scrittura come strumento di denuncia contro il governo sovietico e nessuno di questi paesi potè mai sostituire la sua patria alla quale fece ritorno nel 1994, dopo la dissoluzione dell’Urss, quando il presidente Boris Ieltsin gli restituì la cittadinanza.
Nonostante la riconciliazione avvenuta nel 2000 con il presidente Vladimir Putin, Solzhenitsin da monarchico convinto non celava la propria nostalgia per la Russia tradizionale e non mancava di denunciare la corruzione del sistema politico, economico e morale e l’assenza di democrazia e di libertà di stampa e di informazione anche nell’era Putin. Allo stesso Putin, tuttavia, tributava rispetto e stima per l’intento di risollevare un paese ereditato in ginocchio. E l’apprezzamento fu reciproco dal momento che l’opera omnia di Solzhenitsin, trenta volumi, arricchirà le librerie della Russia oltre che quelle occidentali entro il 2010, esaudendo la grande e unica aspirazione di Solzhenitsin, ossia quella di raccontare la storia del suo paese alle coscienze e alla memoria dei suoi compatrioti