Il giorno del giudizio, l'Italia al bivio, dentro o fuori; le definizioni della tornata referendaria in programma domenica prossima si sprecano.
Per la prima volta, forse dai lontani referendum su divorzio e aborto, l'Italia, intesa come popolazione, come insieme di cittadini, si mobilita, percepisce la particolarità del momento.
Anche se, di recente, illustri testate hanno abbattuto esplicitamente il muro della (presunta) terzietà rispetto, addirittura, a competizioni politiche nazionali, noi di strill.it ci guardiamo bene, per scelta, dal prendere posizione rispetto a scelte di schieramenti.
Stavolta, però, crediamo che la faccenda sia diversa.
Crediamo che la scelta alla quale è chiamata l'Italia prescinda da connotazioni di carattere politico e di schieramento.
Quando c'è in ballo la Costituzione il gioco "duro", "sporco", finalizzato sempre e comunque
al risultato e che connota da sempre la contesa politica non ha diritto di cittadinanza.
Quando c'è in ballo il destino dell'impalcatura, delle travi portanti dell'edificio, le liti
strumentali sul colore della facciata non possono essere prese a modello di sistema.
Ed allora, come accadrà domenica, ciascuno deve prendere posizione.
Secondo coscienza e, al tempo stesso, con grande serenità.
Le radici del patto sociale, lungi dal voler pensare che stiano nel conseguimento utopistico
di una uguaglianza reale che si sostanzia nella medesima qualità della vita e ricchezza tra
le varie aree del Paese, consistono, comunque, nel garantire – quello si- il minimo
indispensabile di uguaglianza sotto forma di ripartizione equa dei servizi minimi essenziali.
In quantità e qualità.
E 2006 anni dopo la nascita di Cristo questi servizi minimi essenziali ed inderogabili
vanno individuati nella sanità, nell'occupazione, nei trasporti, nei servizi per le fasce
più deboli come gli anziani, i disabili, gli indigenti.
Una "devolution" che allontani sempre più due aree del Paese non solo non sarebbe congrua
rispetto al patto sociale sancito giusto 60 anni fa dai padri costituenti, ma in questo momento
sarebbe estremamente pericolosa per il futuro concreto, reale del Paese.
Almeno del Paese unito.
Perchè la teoria secondo la quale ogni popolo, anche il più pigro, come, ad esempio, quello
calabrese è pronto a fare di necessità virtù, probabilmente è vera, ma altrettanto innegabile
è l'altezza estrema della posta in palio, rispetto alla quale il rischio è che, se le regioni
del Sud non si attrezzano in fretta, sul piano delle risorse, dell'organizzazione, della
pianificazione, dell'inventiva, dello sviluppo, rischiano di andare incontro a serie
difficoltà.
E se il prezzo da pagare per darsi – finalmente- una scossa consistesse nel dovere rinunciare
ad una macchina o un telefonino, alla fine sarebbe poco male.
Ma il guaio -perchè di guaio si tratterebbe- si abbatterebbe, come sempre, sulle classi più
deboli, su chi non ha i soldi per farsi curare privatamente, ad esempio, o per mandare i
propri figli ad asili o scuole private.
E' un rischio che un Paese, inteso nel senso più lato possibile, concepito come un coacervo
di diversità che diventano unità, tenute coese da uno spirito solidaristico che non può
improvvisamente diventare estraneo alla nostra cultura, può correre?
Non si corre il rischio di gettare l'acqua con il bambino?
P.S. Chi chiede che la ricchezza resti dove è stata prodotta immagino che sarebbe d'accordo a
vendere i prodotti che portano la ricchezza medesima solo nel territorio di competenza…ma
qualcuno si ricorderà che, ad esempio, il mercato degli elettrodomestici, tanto per dirne
una, nei decenni, ha trattolinfa e ricchezza dalle popolazioni del Sud.
Certo, libero mercato in libero Stato.
Stato, appunto.