• Centrale di Saline: schieramenti in campo. I protagonisti del Progetto SEI

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    di Damiano Praticò – Chi è che vuole fare la Centrale a carbone di Saline? Chi sono i soggetti del Progetto Sei, tra cui gli svizzeri di Repower, che stanno portando avanti il progetto?

    Perché proprio a Saline?

     

     

    L’opinione pubblica se lo chiede, ed è divisa sull’opportunità di questo investimento.

    Da un lato associazioni cittadine, tramite il Coordinamento Associazioni Area Grecanica per il No al Carbone, e settori della società civile esprimono serie perplessità, dall’altro esistono diversi comitati cittadini a favore (ad oggi se ne contano quattro) ed altre parti sociali (come Confindustria o i sindacati di categoria di Roma) che puntano molto sul progetto e sulle sue ricadute economiche, occupazionali ed infrastrutturali. Ma andiamo con ordine ed iniziamo con l’affrontare alcuni argomenti tra i più sentiti: l’ambiente, in relazione ai cambiamenti climatici, e la fattibilità economica del progetto.

    E’ notizia di pochi giorni fa, infatti, la presa di posizione, da parte di ventiquattro scienziati svizzeri i quali hanno espresso, dati alla mano, i loro dubbi rispetto al progetto della centrale a carbone di Saline, insieme a quella di Brunsbüttel in Germania. Le critiche, sostanzialmente analoghe a quelle esposte dai comitati cittadini anti-centrale, vertono eminentemente sui problemi ambiente ed economia: le abbiamo riprese ed analizzate.

    Primo punto: “La centrale di Saline, insieme a quella di Brunsbüttel, produrranno annualmente tonnellate di CO2 pari a 17,5 milioni. In secondo luogo, la possibilità di dotarsi della tecnologia che permette la separazione e l’immagazzinamento della CO2 (CCS), con la quale potenzialmente si possono azzerare fisicamente questo tipo di emissioni del gas climalterante, non può essere considerata – hanno affermato gli scienziati – come soluzione per le centrali costruite oggigiorno.”

    Secondo i comitati a favore del progetto, ma soprattutto per le aziende partecipanti al Progetto Sei, però, tutt’oggi, la CCS è una tecnologia perfettamente funzionante (basti pensare, secondo loro, che nel mare del nord la sperimentano da più di 10 anni), anche se con un grosso limite: quello dei costi aggiuntivi ad essa associati.

    E’ importante, dunque, fare alcune precisazioni a riguardo delle emissioni di CO2: ad oggi, qualsiasi impianto di generazione elettrica da fonte convenzionale (gas, carbone ed olio combustibile) è obbligato per legge – tramite la normativa europea che istituisce il cosiddetto Emission Trading Scheme – ad acquistare tanti permessi di emissione quante sono le tonnellate di CO2 che emette. Questo vuol dire – dicono i pro-centrale – che virtualmente ogni grammo di CO2 prodotto da qualsiasi impianto nell’Unione Europea viene annullato grazie ad interventi di compensazione su scala globale.

    Un esempio renderà tutto più chiaro. Immaginiamo un impianto a gas in Finlandia che emette 5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno: l’operatore che lo gestisce è obbligato (pena delle sanzioni molto dure) ad acquistare 5 milioni di permessi di emissione il cui ricavato serve a realizzare attività che possano annullare quelle emissioni, come, ad esempio, finanziare il rimboschimento di una fetta della foresta amazzonica o aumentare l’efficienza di vecchie centrali in Cina. A questo punto ci si potrebbe chiedere: ma se la CO2 viene emessa in Finlandia perché si interviene in Brasile o in Cina? Semplice: la CO2 non è un gas tossico, dice Progetto Sei (su questo sono concordi scienziati ed ambientalisti di tutto il mondo), ma può avere degli effetti sul riscaldamento globale; per questo, le misure di compensazione possono essere implementate a livello globale. L’impianto di Saline o di Brunsbuttel, qualora venissero realizzati, sarebbero costretti per legge a rispettare questa normativa, annullando tutta la CO2 prodotta, a differenza di altri settori dove ciò non è previsto o non è possibile per ragioni economiche, come per la CO2 emessa dalle macchine.

    In secondo luogo, la critica del gruppo degli scienziati svizzeri si è concentrata sulle prospettive di reddito insicure: “Gli investimenti nelle centrali – hanno riferito – restano redditizi solo se la media dei ricavi per l’energia prodotta è sopra la media dei costi di produzione (inclusi i costi d’investimento). Allora per coprire i costi superiori del combustibile, CO2 e costi di capitale, occorre aumentare lo sfruttamento della centrale durante la sua durata di vita e/o aumentare il prezzo dell’energia elettrica”.

    Su questo punto, è ferma la posizione di Progetto Sei, il quale ritiene che il ruolo dell’opinione pubblica e delle istituzioni (e quindi dei media che hanno il compito di informare) sia quello di valutare l’opportunità di un investimento come quello del progetto SEI sotto molti profili: la salute pubblica, la tutela dell’ambiente, i vantaggi per il territorio, l’occupazione generata, l’indotto creato o le infrastrutture realizzate. Tra questi vari aspetti, ritengono che non debba rientrare la redditività dell’investimento: questa valutazione spetta, secondo loro, unicamente al privato che decide di investire, assumendosi un rischio imprenditoriale.

    Esiste però un’eccezione: è giusto capire se un investimento del genere “sta in piedi” solo nella misura in cui sia finanziato, o co-finanziato, da fondi pubblici: in questo caso è come se il progetto fosse dei cittadini ed è più che giusto vigilare affinché non si trasformi solo nel business della costruzione (forse come nel caso dell’ex-Liquichimica?), a prescindere dall’opportunità economica.

    Ma la critica degli scienziati svizzeri si è soffermata su ulteriori problemi di redditività: “Le centrali a carbone, che sono tipicamente orientate alla produzione continua – hanno inoltre sottolineato – sono troppo goffe e non riescono a essere abbastanza flessibili e a reagire prontamente alle oscillazioni di domanda. È da attendersi, di conseguenza, un’eccessiva offerta da centrali a produzione continua ed una sottoutilizzazione delle centrali a carbone”.

    Secondo i fautori del progetto, invece, tali considerazioni devono essere valutazioni che spettano unicamente all’investitore il quale, con capitali propri, sviluppa un progetto.

    Certo, sarebbe molto strano se una multinazionale svizzera, come la Repower, attiva in quattro Paesi, che impegna più di un miliardo di € nella nostra Regione (di questi tempi e, diciamolo chiaramente, in Calabria in particolare, dove il quadro economico non è dei migliori), non avesse analizzato e rianalizzato, prima di investire, pro e contro, senza essere più che sicura che quella cifra possa rendere.

    PROGETTO SEI: I SOGGETTI

    Ma quali sono, specificatamente, le aziende che partecipano alla costruzione della centrale a carbone di Saline? Il ‘Progetto Sei’, cioè, come abbiamo detto, il piano previsto per la realizzazione dell’impianto, presenta diversi soggetti, ognuno con un peso diverso all’interno del contesto generale. La succitata ‘Repower’, multinazionale svizzera del settore energetico, ha in esso un ruolo principale, come si evince dalla partecipazione percentuale all’interno del progetto:

    – 57,5% Repower
    – 20% Gruppo Hera
    – 15% Foster-Wheeler
    – 7,5% Aprisviluppo

    Il Gruppo Hera rappresenta l’insieme delle aziende municipalizzate della città di Bologna. La Foster-Wheeler si occupa dell’aspetto ingegneristico della centrale. Aprisviluppo è il fondo che ha ricercato e trovato il sito per la realizzazione della centrale.

    Scomponendo ancora la scatola cinese, risultano come principali azionisti di Repower, azienda a partecipazione pubblico-privata:

    – 46% Cantone dei Grigioni (Svizzera)
    – 24,6% Alpiq Holding AG (società elettrica)
    – 21,4% EGL AG (società elettrica)
    – 8% restante in mano al pubblico (free float)

    Tanti protagonisti da una parte e dall’altra. Chi la spunterà?

    (2 – continua)

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