• Reggio Calabria – Una cascata di appalusi per Enrico Guarneri, protagonista de “La roba”

    di Grazia Candido (foto Antonio Sollazzo) – Applausi scroscianti per Enrico Guarneri. Una delle novelle più belle della letteratura italiana, “La roba” di Giovanni Verga, la cui riduzione teatrale porta la firma di Guglielmo Ferro, è andata in scena ieri sera al teatro “Francesco Cilea”, penultimo appuntamento della kermesse “Le maschere e i volti” della Polis Cultura.

    Ad indossare i panni del protagonista con sempre maggiore sicurezza e padronanza, un travolgente Guarneri, oramai personaggio di punta delle stagioni artistiche della Polis Cultura di Lillo Chilà che incassa un nuovo successo e si prepara per il gran finale.
    Il punto di forza di questa messinscena è sicuramente il semplificare e rendere ancora più alienante la tecnica narrativa verghiana, in modo tale da far emergere la componente verista dell’autore in tutta la sua crudezza.
    E per poter fare tutto ciò, è necessario una presenza scenica possente, sicura, che sappia calarsi nel personaggio di Mazzarò, proprietario di ettari di terra e bestiame, un uomo insensibile e sfruttatore di manodopera pagata pochissimo e fatta vivere in condizioni crudeli.

    Guarneri, da attore navigato, sin dalle prime battute, fa suo quell’uomo che vive per accumulare e basta e quando sta per morire, ha il desiderio che la sua roba scompaia con lui.
    Enrico però, cerca di riscattare il suo personaggio, dandogli  un po’ di umanità, salvarlo dall’avarizia che lo priva di tutto, lo spoglia dei sentimenti, non lo fa dormire, gli logora l’anima.
    Il pubblico è incantato dalla storia sapientemente ricostruita da un eccellente cast di attori guidati da un “cavallo di razza” che fa riflettere e commuovere soprattutto quando Mazzarò racconta, a sé stesso, i suoi trascorsi da povero.
    Una pagina che non cela le fragilità di un uomo nato indigente e contadino ma che col tempo, accumula beni fino a diventare padrone di ogni cosa, di ogni terra, denudando con il duro lavoro, sotterfugi e tanto cinismo, il nobile barone incapace di tenersela stretta.
    Tra una scenografia agreste minimale, formata da un grande ulivo a centro scena che diventa l’immutevole testimone della vita dei campi, gli attori costruiscono le narrazioni tra il buio e sprazzi di luce che illuminano i momenti più salienti della storia.

    L’attore catanese con estrema naturalezza, supera il verismo del personaggio e riesce a sdoppiarsi fra i tormenti esistenziali e le fobie del protagonista incastrato nella cupidigia, nell’insensibilità, nella grettezza immutata dell’arido scalatore sociale.
    L’avarizia di Mazzarò diventa motivo di dibattito nel darsi ragione rispetto alle minime esigenze dei suoi dipendenti e questa forma di invenzione morale che trascende l’umano alla fine, si scontrerà con la scoperta del nulla e che tutti rientrano tra i “vinti” dal destino.
    Con la morte niente sarà più come prima e anche Mazzarò dovrà lasciare tutto, una separazione dolorosa che cerca di rimediare con la distruzione o con l’implorazione “roba mia, vientene con me” perchè “quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba”.
    Ma tutti prima o poi, dobbiamo lasciare per sempre questo ambiente che non tiene conto della nostra anima, ci fa diventare spietati e insensibili come Mazzarò e tornare ad essere finalmente liberi e felici.