Le vicende drammatiche degli ultimi giorni hanno riportato in auge, in ambito nazionale, un ambiguo dilemma. Ed ecco che intellettuali o sedicenti tali, ma anche psichiatri, operatori del settore ed anche uomini della strada muovono, da più parti, accuse ad una norma che resta un baluardo di civiltà, seppur sottoposta alle più disparate ingiurie. Non è certo difficile scovare un’inversione della logica in tali assunti. I principi della “legge Basaglia” vengono così duplicamente calpestati. Lo sono, in primo luogo, dalla politica e dalle istituzioni, laddove ( e questo purtroppo accade in diversi ambiti nazionali e territoriali) non è stato dato seguito fattivo all’approccio che dovrebbe caratterizzare l’intervento degli organi politici e tecnici rispetto la problematica della prevenzione e della tutela della salute mentale. E se così risultano del tutto carenti, se non assenti in diverse realtà, le iniziative ed i servizi posti a tale tutela, così come voluti dalla legge “quadro”, la conseguenza è che, anche ( se non soprattutto ) nelle alte sfere, viene facile richiamare, con sadica nostalgia, la reintroduzione di misure istituzionalizzanti, i manicomi. Paradossalmente questo triste esecizio accomuna la gente comune, l’operaio come i responsabili politici e tecnici dell’inesistenza e dell’inefficienza della tutela della salute mentale; come un “gioco” che paradossalmente accomuna potenziali vittime con i loro “carnefici”. I fatti di cronaca sono così utilizzati, paradossalmente, ad occultare le responsabilità della classe politica e dirigenziale. Anzi a ribaltare, in buona sostanza, le stesse responsabilità sulla “Basaglia” e, quindi, sulle persone sofferenti. Auspicando, come soluzione, la reintroduzione del manicomio: la “città dolente”, in cui confinare, “nell’eterno dolore”, “la perduta gente”.
Si, la legge “Basaglia” non costituisce una panacea per la tutela della salute mentale. Nessuna eliminazione ovviamente, nè negazione della sofferenza e della patologia mentale. Ma è un principio di civiltà che non può essere in alcun modo messo in discussione, tanto più solo perchè le autorità preposte non hanno agito con coerenza a tale principio. Sarebbe, sostanzialmente, come biasimare il Credo solo per le infedeltà e le devianze di alcuni sacerdoti. Occorre, in estrema sintesi, rinforzare ed adeguare qualitativamente i servizi per la salute mentale. Forse occorre anche rivedere i criteri di punibilità dei reati commessi in relazione alle condizioni soggettive dell’autore. Ma, ancora più fermamente, occorre ripudiare, definitivamente, quei sistemi che nella nostra Italia ed ancor più nella nostra Reggio Calabria, hanno per lunghi anni assimilato l’assistenza ( si fa per dire) psichiatrica alla deportazione. Non dimentichiamo le tristi similitudini, richiamate innumerevoli volte, all’epoca, dai media nazionali, fra i reparti del Manicomio del rione Modena ed Auschwitz, Spandau, Dachau … .
E’ noto che il livello qualitativo dell’assistenza psichiatrica in un determinato contesto costituisce una sorta di cartina al tornasole di quella che è la qualità della pubblica amministrazione e della civiltà nel contesto medesimo.
E, purtroppo, si deve prendere atto che, nella nostra regione e nella nostra città in partcicolare, la tutela della salute mentale e l’assistenza psichiatrica, indipendentemente dal colore delle amministrazioni che si sono succedute, è stata calpestata e relegata sovente al di fuori dei doveri della pubblica amministrazione. Il blocco dei ricoveri nelle strutture psichiatriche, vigente da ben 8 anni nella provincia di Reggio Calabria, costituisce, da un lato, un’evidente prova di inadeguatezza della pubblica amministrazione; dall’altro l’incapacità della società civile di ribellarsi di fronte ad un’evidente violazione dei principi di civiltà, prima ancora che dell’obbligo di fornire l’assistenza sanitaria a chi ne ha bisogno. Ed è così che le persone sofferenti devono trasferirsi in altre realtà territoriali per ricevere assistenza o, più spesso, devono rinunciare del tutto alle cure, con tutte le conseguenze del caso.
Alla luce di ciò non si può certo dimenticare la necessità di fare doverosa ed attenta autocritica da parte del mondo della cooperazione e, più nello specifico, del “terzo settore” in generale. Che si è auto relegato nel ruolo di gestore di servizi, rinunciando, sin troppo, al ruolo di soggetto politico che, doverosamente, gli spetterebbe. Un “utile idiota”, in diverse circostanza soggiogato ai bisogni di un’inconcludente amministrazione pubblica, magari rendendo servizi in condizioni di estrema difficoltà ed a basso prezzo, non confacenti alla tutela dei diritti delle persone; basta ricordare , in tal senso, l’annosa questione concernente l’accreditamento delle strutture, in cui le cooperative del settore ed i lavoratori delle stesse sono rimasti ( e restano ancora ) vittime ed ostaggi .
Ed infine, soprattutto in questo momento, bisogna purtroppo ricordare che in diversi e recenti casi si sono consumati, nella nostra città, episodi drammatici di aggressione, anche in ambito strettamente familiare, che solo per circostanze fortuite non sono sfociati definitivamente in tragedia. Ed un sistema sociale, prima ancora che politico, che vuole potersi definire civile non può certo attendere il consumarsi di tragedie per attivare e garantire servizi adeguati. O, ancor peggio, per accodarsi, vilmente, a quella schiera che reclama, di fatto, il ripristino della “città dolente”, in cui confinare “nell’eterno dolore” “la perduta gente”. Una “tentazione” che già accomuna tanti “benpensanti”. A cui una società civile non può che dare una ferma risposta. Vade retro.
Giovanni Canzoniere (Presidente cooperativa Città del Sole)