Morire per restare scolpiti a caratteri di fuoco nella storia.
Andare incontro in picchiata al proprio destino per non morire mai, per garantirsi, la gloria eterna e per far sì, che oltre mezzo secolo dopo anche i ragazzini conoscano a memoria la formazione, recitata a mò di filastrocca.
Bagicalupo, Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
Il Torino, il Grande Torino.
Un'Italia intera, quel 4 maggio del 1949, piangeva lacrime amare, lacrime d'incredulità, lacrime di rabbia, di ingiustizia patita, come sempre quando se ne vanno giovani.
Pioveva su Superga quella maledetta mattina, c'era nebbia sulla collina il giorno in cui la storia aveva deciso di voltare pagina, ed il Toro rientrava da Lisbona, dove aveva disputato una gara amichevole.
C'erano andati appositamente, i granata, perchè il capitano, Valentino Mazzola, lo aveva promesso a Ferreira, il suo collega portoghese, rivale leale di mille battaglie, al suo ultimo atto in calzoncini e maglietta.
Chissà, Mazzola e compagni, ormai da anni padroni assoluti del calcio in un'Italia che provava a rialzarsi quando la distruzione e la disperazione avevano lasciato il passo alla speranza dei sopravvissuti, come lo avevano immaginato quell'ultno giorno con le scarpette bullonate, per qualcuno vicino, per altri ancora di là da venire.
Non arriveranno mai a quel giorno, quei campionissimi, già sfortunati in campo perchè la guerra aveva sottratto loro gli anni migliori, nella vita e sul prato, a qualcuno aveva rubato i sogni, a qualcun altro gli affetti, a tutti loro almeno tre scudetti praticamente certi.
Ma, quando il pallone ricominciò a rimbalzare, al "Filadelfia" la leggenda dei granata era tornata, senza appello, come prima, senza logica, talvolta.
Superga la fece diventare senza tempo.