di Giuseppe Caridi* – Il presente contributo si inquadra all’interno di uno specifico e circostanziato percorso di studio teso ad
indagare i rapporti fra il “genere sessuale” ed i “principali lemmi del lessico urbanistico”.
Il lemma che ho deciso di commentare è quello di “mappa”.
“Tovagliolo, fazzoletto, piccolo panno. È questo il prestito punico che ha originato il latino mappa. Mappa mundi, fazzoletto del mondo” (Pontiggia G., 2001, “Il mondo in un fazzoletto”, in Id., 2004, Il residence delle ombre cinesi, Mondadori, Milano), il termine rimanda a quel “pezzo di stoffa” che veniva usato nell’antichità, per portare a casa le ghiottonerie avanzate, dopo ogni sontuoso banchetto. Essa nasce come il mezzo, lo strumento che serve per trasportare la realtà da un punto all’altro del globo; in altri termini, essa serve per esercitare sulla realtà un’azione fondata sull’appropriazione (Cfr. Farinelli F., 2007, L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo). Cosicché fare la mappa della realtà significa trasformarla in un oggetto, questo lo ha capito bene Anassimandro, dopo essere stato cacciato via da Mileto, perchè ha osato disegnare la prima mappa. Nella grecia del VII sec. A.c. era chiaro a tutti: la realtà è un processo, non è un insieme di oggetti (Cfr. Vernant J. P., 1976, Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma). Oggi abbiamo perso questa consapevolezza e, come dei piccoli nipotini di Anassimandro, continuiamo a farci sedurre dalla rappresentazione organizzando ogni fatto territoriale e urbano secondo la dittatura del principio cartografico. Piuttosto che fare i conti con la realtà, con lo spazio geografico, tutti noi, continuiamo a maneggiare “un suo modello materiale, molto efficace: un foglio di carta su cui sono tracciati meridiani e paralleli, uno spazio figurato, atto a contenere appunto i simulacri dei vari oggetti distribuiti sulla faccia della Terra” (Dematteis G., 1994, Le metafore della terra, Feltrinelli, Milano).
Dobbiamo ovviamente chiarire, se vogliamo parlare in termini critici di “mappa”, non solo cosa s’intende con questo termine, ma soprattutto quale è il nostro punto di vista sull’argomento; nonostante i miei interessi di ricerca siano orientati ad indagare la mappa come paradigma cognitivo, e le conseguenti relazioni fra le teorie dell’urbanistica e il potere ontologico della rappresentazione linguistica della realtà (la mappa, la carta, la tavola), non mi occuperò dei più recenti intendimenti della cosiddetta “teoria postmoderna per la cartografia”, e della questione della “relazione mappa-territorio”, nel quadro dei più generali orientamenti della “critica della ragione cartografica”. Tenterò piuttosto di parlare di mappa nei termini più essenziali possibili, intendendola come produzione creativa, e soffermandomi su un particolare aspetto della relativa circolazione di questa produzione: le mappe emozionali.
Veniamo adesso alla seconda questione, quella del “genere sessuale”.
Nonostante esista una vasta letteratura tesa ad indagare i rapporti fra disciplina geografica e differenza sessuale, il pensiero egemonico ha permesso di alimentare, in maniera tranchant, la narrazione secondo cui “la disciplina accademica della geografia è stata storicamente dominata dagli uomini” (Deutsche R., 1993, Feminism and Geography, University of Minnesota Press, Minneapolis).
Ma ciò è stato sempre vero? Per tentare di rispondere a questa domanda affronteremo la questione, esaminando l’elaborazione della mappa che, secondo diversi autori, ha contribuito ad aprire la strada alla “geografia delle emozioni”. E la cui riscoperta, a mio avviso, può contribuire a togliere un po’ di polvere dal discorso geografico che, troppo spesso, ha contribuito a mantenere il sapere cartografico confinato all’interno di una ristretta fascia di élite.
Questa mappa si chiama Carte du pays de Tendre (“Carta del paese della tenerezza”), ed è stata pubblicata nel 1654. Dal momento che le motivazioni d’interesse non sono quelle dello storico della cartografia, occuparsi della Carte de Tendre a più di tre secoli e mezzo dal suo apparire sulla scena può sembrare una stravaganza. Ma la ragione è che questa elaborazione “entrò nel territorio della cartografia […] e ne cambiò il corso” (Bruno G., 2006, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano). La carta è contenuta nel romanzo Clélie di Madeleine de Scudéry. È stata incisa da François Chauveau, ma il progetto è frutto di un lavoro collettivo portato avanti, quasi esclusivamente da donne, nel salotto parigino della scrittrice. Come per Robert Louis Stevenson ne L’Isola del tesoro (1883) anche la mappa descritta in Clélie struttura e si trasforma nella trama del romanzo stesso. Secondo Giuliana Bruno (Atlante delle emozioni cit.) quella dalle Scudéry è “un’opera aperta”, “una mappa vivente”, solo all’apparenza è la mappa di uno spazio fisico, reale. Ma se proviamo a leggere i toponimi questi, si vedranno corrispondere a stati d’animo ed emozioni.
Italo Calvino (1984, “Il viandante e la mappa”, in Id., 1994, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano) ha sostenuto che ogni mappa “presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea”, perciò mettetevi in viaggio verso Tendre.
Proponetevi di disegnare la vostra personalissima mappa delle emozioni, popolatela di immagini, e soprattutto di persone. Ciò vi costringerà a fare i conti con voi stessi, e con la vostra capacità di stare al mondo in relazione al mondo stesso, come succede nell’epilogo de L’artefice di Jean Louis Borges (1999, L’Artefice, Adelphi, Milano) quando: “un uomo si propone di disegnare il mondo. [E finisce per scoprire che, dopo anni,] quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Ma questo processo di avvicinamento alla geografia delle emozioni ci spinge ad essere più curiosi. Ci ricorda che la “retorica della scienza”, e con essa la strada della “indefettibile precisione”, è anche un intreccio di lacci e lacciuoli da cui cerchiamo di scioglierci, mentre continuiamo a stringerli. Ci costringe a pensare a quanto abbiamo bisogno di capacità creativa e nuova immaginazione, soprattutto in questo momento in cui da una parte stentiamo a capire il funzionamento del mondo, e dall’altra continuiamo a paragonare la situazione della disciplina urbanistica ad un permanente navigare a vista, cosicché a me tornano in mente le parole di Henri Laborit, in Elogio della fuga (1990, Mondadori, Milano): “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio”. Il desiderio epistemico di cercare sempre “Terres Inconnues”, tanto nella vita, quanto nella mappa di mademoiselle de Scudéry, lo stesso che mi ha permesso di scrivere questo breve articolo.
*Architetto e studioso dei fenomeni territoriali, è Dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della Città mediterranea” presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria
“Ciò che è empiricamente femminile è l’associazione del desiderio con lo spazio”
(Benjamin J., 1986, “A desire of onès own”, in de Laurentis T., a cura di,
Feminist studies/Critical studies, Indiana University Press, Bloomington)