di Josephine Condemi – “Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai
allevare tu i nostri ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”: così scriveva Giorgio Ambrosoli alla moglie il 25 febbraio 1975, ben quattro anni prima del suo assassinio, avvenuto l’11 luglio 1979.
Aveva accettato da circa un anno l’incarico di unico commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, la banca di Michele Sindona.
Scrive questa lettera alla moglie la notte prima di consegnare alla Banca d’Italia e al Tribunale, la relazione sullo stato passivo della banca, cioè l’elenco dei creditori riconosciuti. E non solo nega crediti a istituti eccellenti come lo IOR ma va oltre. Perché quando si tratta di recuperare il possibile dal patrimonio della BPI per continuare le operazioni di liquidazione e risarcire il consorzio dei soldi pubblici con cui sono stati pagati i creditori, Giorgio Ambrosoli scopre le operazioni volte a finanziare il terrorismo in Grecia, i fondi neri, le società fantasma, il sistema a “scatole cinesi”, i legami con certi ambienti politico-massonici di Sindona.
Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, tratteggia la figura dell’avvocato e del padre incrociando sentenze e ricordi personali, filmati RAI e immagini della memoria, documenti ufficiali ed esperienze personali, storia collettiva ed individuale; ne viene fuori un ritratto a tutto tondo, di quello che Stajano ha definito “un eroe borghese” troppo a lungo dimenticato.
“Papà ha del suo ruolo una considerazione diversa [dalla maggioranza, ndr]: non deve solo distribuire ai creditori gli attivi della banca al momento del fallimento ma deve recuperare ciò che è stato portato via illegalmente”: un diverso senso dello Stato, di chi non ha fatto “di più” ma semplicemente il suo dovere, nonostante si tentò di impedirglielo in tutti i modi.
Emerge dal volume di Umberto Ambrosoli tutta la dimensione privata e pudica di un dramma familiare vissuto con compostezza e dignità, senza tratti polemici né toni urlati; emerge anche il dramma dell’uomo Ambrosoli, con la sua lucida consapevolezza del ruolo affidatogli e la ferma volontà di non farsi condizionare, sebbene accerchiato in una morsa sempre più stretta; emergono i non detti di chi sapeva ed ha taciuto, di chi con il silenzio ha acconsentito o semplicemente se n’è lavato le mani.
“A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato, non per un partito” scriveva ancora Giorgio alla moglie. Per non permettere che il crack Sindona si riversasse come una valanga sui risparmiatori e venisse ripagato con i soldi pubblici. Per affermare la propria libertà, nonostante tutto.
E la propria coerenza ai ideali in cui credeva. Qualunque cosa fosse successa.