di Isidoro Pennisi – Banale è un aggettivo d’origine francese che, etimologicamente, significa ciò che è “comune a tutto il Villaggio”. Definisce, nella traduzione nella lingua italiana, tutto ciò che di scontato conosciamo per esperienza e che, quindi, è irrazionale discutere, non perché sia un dogma ma esattamente per il contrario: perché il tempo lo ha reso vero al di là di ogni ragionevole dubbio. La Forza di Gravita, il Movimento d’Inerzia, sono fenomeni banali, in natura, proprio perché il discuterli è irrazionale, scontato, privo di originalità. La banalità è irreparabile perché non è suscettibile di trasformazione, manca di prospettiva, preesiste al momento. Ciò che è banale può essere solo ed esclusivamente governato, guidato, condotto verso finalità e valori positivi, con difficoltà, ingegno, modestia e tempo. Per capirci vorrei farvi leggere dei versi di Bertolt Brecht. “Vescovo, so volare”, il sarto disse al vescovo. “Guarda come si fa!” E salì, con arnesi che parevano ali, sopra la grande, grande cattedrale. / Il vescovo andò innanzi. “Non sono che bugie, non è un uccello, l’uomo: mai l’uomo volerà”, disse del sarto il vescovo. / “Il sarto è morto”, disse al vescovo la gente. “Era proprio pazzia. Le ali si son rotte e lui sta là, schiantato sui duri, duri selci del sagrato”. “Che le campani suonino. Erano solo bugie. Non è un uccello, l’uomo: mai l’uomo volerà”, disse alla gente il vescovo.
Nel dialogo si confrontano due ideologie: una laica e l’altra religiosa. Ambedue provano a sostenere i loro rispettivi torti. Aveva torto il sarto perché l’uomo non è un uccello. Aveva torto il vescovo perché l’uomo oggi vola. Per volare, però, si è dovuto inventare un artificio: l’uomo vola, a dispetto del vescovo, ma non lo ha fatto, a dispetto del sarto, seguendo i trattati di ornitologia. Anche oggi assistiamo ad un dialogo simile tra coloro che credono al progredire inarrestabile dei rapporti tra esseri umani diversi, etnie diverse, società culturalmente diverse, religioni diverse e coloro che credono al fatto che ciò non sarà mai possibile. Hanno torto entrambi come già lo ebbero il sarto e il vescovo. Hanno torto non perché mancano di motivi per affermare ciò che dicono, ma perché ignorano le banalità della realtà. Esse si manifestano da sempre, in questo senso, attraverso travagli sociali che lentamente, con il tempo, con i sacrifici, giungono ad un nuovo assetto sociale in cui le originarie etnie e diversità diventano non confuse e non divise generando una novità.
E’ banale ricordare che non è mai esistita un alternativa a questo e se qualcuno è a conoscenza del contrario lo dica e porti le prove. Per non lasciare questo discorso a metà, per non tenerlo sospeso nella riflessione astratta, voglio indicare quali sono le banalità che i fatti di Parigi ci ricordano. Nel Vicino e Medio Oriente è in corso una Guerra Civile. In questa guerra si confrontano non realtà diverse ma parti diverse di una stessa realtà: non è una guerra in cui il nemico è, in origine, l’Occidente. Lo è diventato. E lo è diventato nel momento in cui l’Occidente politico e culturale ha assunto ai loro occhi il ruolo del collaborazionista, con una o l’altra delle parti in causa. E’ una guerra civile feroce come solo queste possono esserlo. Ed è così non perché gli Arabi e i Mussulmani abbiano tare culturali, morali, etiche che li fanno essere sprezzanti della vita umana in maniera diversa da altri. Se solo ricordassimo che cosa fu in Spagna, non molti decenni fa, la Guerra Civile, in cui la pulizia etnica, il dissacrare il sacro e lo sgozzamento erano una orribile norma da ambo le parti, forse ne sapremmo di più. Se sapessimo che anche il quel caso, da ambo le parti, confluirono in Spagna combattenti non spagnoli da ogni parte del mondo, come ora, ne sapremmo di più. Una realtà sociale che non è causa diretta nel conflitto non può però continuare sine die ad essere soggetto a latere dello stesso senza pagarne le conseguenze. Una realtà sociale deve scegliere, in rapporto ai propri interessi ed obbiettivi legittimi di lungo termine, da che parte stare in maniera chiara (se deve stare) oppure deve rimanere neutrale. Ciò che non può fare è dare un colpo a troppi cerchi e a troppe botti.
Il motivo di questa guerra civile è banale. Le nazioni, così come le conosciamo, non sono state create insieme ai mari, alle montagne e ai fiumi, ma sono nate da equilibri emersi, nel tempo, da eventi storici in cui il conflitto bellico è stato strumento e condizione senza il quale non esisterebbero le nazioni e il loro disegno geografico. Nel Vicino e Medio Oriente esiste un problema banale: vi sono assetti territoriali di tipo nazionale nati in vitro e disegnati esattamente da altri con riga e matita. Il problema non è discutere se sia stato giusto o meno, e nemmeno rivangare i meriti e i demeriti del colonialismo, ma di riconoscere che quel disegno non è socialmente e geograficamente compatibile con la banale maniera con cui vengono a formarsi gli spazi vitali di una comunità nazionale. Nel momento stesso in cui il fenomeno coloniale è venuto meno, è iniziato un ,lungo e banale processo di formazione di una geografia politica ancora tutta da definire. Una geografia che non si potrà definire in altra maniera se non attraverso la misura dei rapporti di forza e degli obbiettivi contrastanti che dividono la coorte Mussulmana. Europa e Stati Uniti, America Latina e Asia, non sono divise in nazioni dai tempi del Big Bang ma sono diventate come le conosciamo attraversando tutto ciò che al momento ci fa inorridire nel vederlo fare ad altri.
Confondere una banale questione di geografia politica con uno scontro di civiltà o di religione è quanto meno indicativo dello stato di salute culturale che attraversiamo. Cosa fare? A questa domanda non esiste una risposta banale. Dopo ciò che ho detto, però, è giusto che io dia una mia risposta fallace tra quelle possibili a questa domanda. I contatti e gli impatti tra comunità e culture sono una consuetudine sociale così come la gravità è una consuetudine dell’ambiente dentro il quale respiriamo. Non si possono avere i contatti senza gli impatti. Se noi siamo quello che siamo, in bene e in male, lo siamo perché da migliaia d’anni veniamo forgiati da questa alternanza di ragionevoli rapporti e di ragionevoli scontri sanguinosi. Sono i nostri valori ad essere diventati così per via di questa banale consuetudine sociale. I popoli europei, dopo settant’anni di pace mai vissuti prima in questa dimensione, hanno dimenticato questo dato banale e, per certi versi, lo hanno mentalmente abrogato. Abrogarlo mentalmente, però, non vuol dire che questo dato si sia eclissato, alla stessa maniera per cui non si eclissa la Legge di Gravità convincendosi che si può volare dal balcone muovendo le braccia. La linea del fronte Mediterraneo è antica come i contatti e gli impatti che lungo di essa si svolgono, e questo avviene da prima della nascita di Maometto e di Gesù il Nazareno. Persiani e Greci, ad Est, Cartaginesi e Romani ad Ovest, si sono combattuti per lunghi anni molto prima che Gesù camminasse sulle acque di Tiberiade o che Maometto si avventurasse nel deserto della Penisola Araba per ricevere l’ispirazione. Le soluzioni a questi conflitti hanno reso la storia una certa storia anziché un’altra: non saremmo ciò che siamo se i Persiani avessero sconfitto i Greci e i Cartaginesi i Romani. In questo momento, su questo fronte Mediterraneo non siamo noi la parte in causa principale, ma a forza di assumere il ruolo di collaborazionisti ondivaghi lo siamo diventati e non credo che esista più la possibilità di diventare neutrali. Anche perché non credo che esserlo rientri nei nostri interessi veri e responsabili. E’ la cosa che io ritengo a questo punto più rilevante per le generazioni future: non è vero che per noi sarà indifferente chi prevarrà e quali assetti usciranno da questa vicenda. Lo sforzo da fare, il rischio da prendere, è capire con chi stare in funzione di un quadro di convenienze pratiche ed ideali. Io non ho risposte certe, ma so che la lotta per quel territorio collocato tra Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto, a noi interessa e riguarda per motivi vitali e i diversi. Gli esiti possibili non sono tutti uguali. Se non deponiamo le armi convenzionali delle nostre idee in proposito, che annegano il problema tra questioni ininfluenti come l’immigrazione, la religione, gli stili di vita, non entreremo nell’ordine responsabile delle idee e non potremmo mai fare una scelta consapevole. Se non tacitiamo con la forza del realismo i discorsi vanagloriosi, ideologici, ai limiti della superstizione esorcista, di chi vuole difendere identità, da un parte, o di chi crede nella logica inarrestabile delle felici sorti e progressive dell’integrazione sociale senza la fatica delle contraddizioni che servono per arrivarci, dall’altra, continueremo a subire la situazione.
Dopo le giuste dosi d’orgoglio democratico e repubblicano che stanno trasudando in questi giorni dalle Piazze e dall’animo di noi europei, verrà il tempo delle decisioni. Non è più possibile vivere nel Mediterraneo da collaborazionisti e se non sono bastati tre essere umani armati in una delle nostre città a farcelo capire, avremo sempre il tempo per altre dimostrazioni. In questo momento, su un piano forse più grave in prospettiva, noi ci troviamo esattamente nella stessa situazione di Chamberlain a Monaco ma con in mano delle opzioni più varie e complesse. Non possiamo ripetere l’errore che fu fatto a Monaco e che Winston Churchill, in quel caso, stigmatizzo facilmente, prevedendone le conseguenze. Se non prendiamo le giuste decisioni, di noi stessi potremmo già oggi dire, parafrasando ciò che proprio Winston Churchill disse a proposito di quella decisione attendista, una cosa del genere: potevano scegliere fra il disonore del collaborazionismo ambiguo, vile e la partecipazione responsabile, chiara, decisa, virtuosa. Hanno scelto il disonore del collaborazionismo e avranno una partecipazione tragica.