di Angelica Costa* – Il termine inglese Serendipity, ovvero la facoltà di compiere felici e fortunate scoperte per caso (Oxford English Dictionary), fu coniato dal romanziere Horace Walpole in una lettera
a Thomas Mann del 28 Gennaio 1754, prendendo spunto dal racconto persiano “I tre principi di Serendip”, provenienti, cioè, da Serendip, antico nome arabo dell’isola di Ceylon (evidentemente scoperta per caso), e che avevano appunto il dono di fare scoperte per caso.
Questo termine, che è un’invenzione letteraria ma che oggi è entrato nell’uso comune, tanto comune da essere addirittura di moda, infatti, è il nome di un famoso ristorante di New York, di una ludoteca a Torino, di una linea di biancheria, di una marca di biglietti di auguri, di una casa editrice ed addirittura il titolo di una commedia rosa hollywoodiana (di Peter Chelsom, USA, 2001); è stato poi introdotto in Sociologia da Robert K. Merton (Merton, R.K., Social Theory and social Structure, Free Press, New York, 1949) e, più recentemente, in Italia, è stato riproposto da Arnaldo Bagnasco (Bagnasco, A., fatti sociali formati nello spazio, Franco Angeli, Milano, 1994).
Merton definisce la Serendipity come “l’esperienza abbastanza comune, consistente nell’osservare un dato imprevisto, anomalo o strategico che fornisce occasione allo sviluppo di una nuova teoria o l’ampliamento di una teoria già esistente”. Verrà poi applicato alla Sociologia Urbana da Alfredo Mela (Mela A., Sociologia delle città, Carocci, Roma, 1996), il quale collega il termine Serendipity alla città, proprio per la sua natura complessa ed eterogenea, per essere un luogo che offre stimoli e sintesi culturali inaspettate, rifacendosi al concetto espresso dall’antropologo Ulf Hannerz, secondo il quale la caratteristica culturale peculiare della città è quella di essere “un luogo dove è molto probabile trovare una cosa mentre se ne sta cercando un’altra” (Hannerz, U., Esplorare la città, il Mulino, Bologna, 1992).
Sebbene la sintesi concettuale espressa in questa definizione sia geniale ed una simile visione della città possa essere affascinante e ricca di suggestioni da un punto di vista antropologico, è evidente la necessità che la città sia resa leggibile ed interpretabile da chi la vive, ovvero fruibile al meglio nella sua forma strutturale.
Ecco allora che emerge il compito degli architetti, urbanisti e pianificatori, che vogliano essere attenti anche agli aspetti più prettamente sociali, culturali, comunicativi e simbolici del contesto urbano: far corrispondere alla caratteristica della città di offrire occasioni di serendipity culturale e sociale, un’offerta di stimoli sul piano formale ed architettonico per rendere percepibile ed interpretabile, e quindi fruibile, la “poetica urbana” (Mela 1996) da tutti.
L’estetica urbana nei suoi aspetti architettonici, urbanistici e artistici, con particolare riferimento all’arredo urbano, influenza largamente le percezioni, le rappresentazioni, i vissuti, gli usi dei cittadini rispetto allo spazio urbano e alle sue trasformazioni, esaltando i caratteri di somiglianza e di diversità, ma deve anche impedire lo spaesamento sociale e spaziale, che oggi, in un mondo dove tutti i luoghi sono sempre più simili, si traduce nella perdita di identità del luogo.
È partendo da questo presupposto che si vuole riflettere sull’importanza, in senso sociologico, della riqualificazione di un contesto urbano e, con questo scopo, offrire delle suggestioni e degli stimoli per una riprogettazione che tenga in giusta considerazione le caratteristiche sociali del contesto oggetto dell’intervento, le dinamiche comunicative e di socializzazione, il senso d’affezione e d’appartenenza per i luoghi di vita e il loro valore simbolico, nella percezione degli abitanti, oltre a quello storico e culturale.
Ma anche e soprattutto andando incontro a quelle categorie di persone diversamente abili, che più delle altre hanno bisogno di essere “guidate” e facilitate nell’utilizzo/fruizione dell’ambiente urbano e comunicare tale intento come valore civico di arricchimento per la città stessa, non solo come necessità parallela a cui far fronte con interventi sporadici non sistematici, che spesso, oltre a non essere efficaci, aumentano il senso di esclusione, da una parte, e di discriminazione dall’altra.
“Una città per tutti”, come è stata immaginata dal gruppo di lavoro del Laboratorio La città per tutti, è un luogo ricco di civiltà, sensibilità e giustizia nei confronti dei propri abitanti; un luogo a dimensione più umana possibile, nel quale si cerca di offrire la medesima opportunità di vita a tutti gli individui, nel pieno rispetto delle differenze, non solo etniche e culturali, ma anche di età e di categoria sociale.
Una città per tutti è quella che mira alla rimozione di qualsiasi vincolo – dalle barriere fisiche a quelle strutturali ed a quelle concettuali –, che possa in qualche modo condizionare il cittadino; è una città attenta alle difficoltà riscontrate nella fruizione degli spazi e dei ritmi urbani non solo dai cittadini appartenenti alle categorie più deboli e svantaggiate (bambini, anziani, portatori di handicap) ma dalla collettività in generale.
… un passo indietro
il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente secondo le scienze sociali
Nell’ambito del pensiero sociologico, infatti, ci si è più volte interrogati su che tipo di relazione intercorra tra l’Uomo ed il suo Ambiente.
Contributi di diverse scuole di pensiero hanno dato vita ad una corposa produzione di studi accademici e riflessioni sul tema Ambiente e Società, che hanno visto prevalere, a secondo del tipo di approccio dal quale partivano tali riflessioni e condizionate da “lo spirito del tempo” e le idee prevalenti del periodo in cui tali riflessioni venivano fatte, l’influenza dell’Ambiente sull’Uomo o viceversa.
Si fa riferimento al dibattito accademico aperto, tra gli anni Settanta e Ottanta, dai sociologi americani William R. Catton e Riley E. Dunlap, i quali nel 1978 proposero il “nuovo paradigma ecologico”, contrapponendolo al vecchio “paradigma dell’eccezionalismo umano”. I due autori cioè si pongono in una relazione polemico-critica nei confronti di tutta la sociologia classica – il funzionalismo, l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, le teorie del conflitto sociale ed il marxismo – accusandole di un antropocentrismo che le accomuna tutte, nonostante le loro apparenti diversità. Il nuovo paradigma riconosce sì delle caratteristiche peculiari agli esseri umani che li fanno distinguere dagli altri esseri viventi (cultura, scienza, tecnica, comunicazione e organizzazione sociale), ma ne conferma un’interdipendenza con le altre specie e assume, al contempo, che la vita sociale è co-determinata dall’ambiente biofisico.
La formulazione originaria di tale paradigma appare sulla rivista The American sociologist nel 1978, ma sarà soggetta da parte degli stessi autori a ulteriori sviluppi. L’anno successivo, infatti, la prestigiosa Annual review of sociology affida a William R. Catton e Riley E. Dunlap il compito di “istituzionalizzare” la nuova disciplina e il suo campo di indagine in un articolo dal titolo Enviromental Sociology. Ebbene questa seconda formulazione, che viene considerata l’atto di nascita ufficiale della nuova disciplina, costituisce un approfondimento concettuale e non solo terminologico. Infatti, ritornano sulla definizione del paradigma che unificava l’intera tradizione sociologica sotto l’orientamento antropocentrico, chiamandolo anziché dell’eccezionalismo, dell’esenzionalismo. Mentre il primo termine mette in risalto le caratteristiche “eccezionali” dell’Homo Sapiens, il secondo pone l’accento sul fatto che le scienze sociali fino ad ora hanno agito e pensato come se gli esseri umani fossero esenti dalla forza di condizionalità dei principi ecologici e dai vincoli imposti dall’ambiente naturale.
Tale dibattito darà vita alla Sociologia dell’Ambiente, cioè un nuovo approccio empirico e teorico allo studio della società che mette in risalto il rapporto di interdipendenza tra l’ambiente biofisico e, non solo il comportamen
to umano, ma dell’intera organizzazione sociale.
Per relazione d’interdipendenza s’intende un rapporto dialettico per il quale: se è vero che l’Ambiente, inteso come contesto geomorfologico, climatico, la presenza o meno di acque, di monti o di altre caratteristiche del suolo, ha da sempre condizionato l’Uomo, sia in termini di Comportamenti, sia al livello di Atteggiamenti; è altrettanto vero che l’Uomo ha da sempre saputo modificare il territorio a proprio vantaggio.
L’aver condizionato i comportamenti significa che l’Uomo ha dovuto adattare il proprio insediamento, e quindi il tipo di società che si è venuta a creare, in base alle caratteristiche ambientali, perciò un’organizzazione sociale basata sull’agricoltura piuttosto che sulla pesca, la capacità artigianale di manipolare una particolare materia prima piuttosto di un’altra, ecc.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti, invece, si tratta più di pulsioni innate, di inclinazioni, sono stati fatti al riguardo tentativi, non sempre attendibili, di classificazione del cosiddetto “carattere nazionale” (Tentori, T., Il rischio della certezza Pregiudizio Potere Cultura, Edizioni Studium, Roma, 1989) dei popoli in base appunto alle condizioni ambientali generali in cui tali popoli si sono sviluppati e alla cosiddetta personalità di base.
I condizionamenti che l’Uomo ha imposto sull’Ambiente sono di due tipi: un processo per così dire fisico e l’altro simbolico.
Il condizionamento fisico messo in atto dall’Uomo nei confronti della Natura per migliorare le proprie condizioni di vita, per favorire lo svolgimento delle proprie attività, per difendersi dagli animali prima e dai nemici poi, consiste nel processo di antropizzazione del territorio.
Il processo simbolico messo in atto dall’Uomo per adattarsi all’ambiente circostante è chiamato Costruzione sociale della realtà (Berger, P. L., Lukmann, T., La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1969): l’Uomo percepisce l’ambiente circostante secondo costruzioni sociali e culturali di senso, donando, cioè, alla realtà significati altri rispetto alle semplici caratteristiche funzionali, creandosi cosi un insieme simbolico condiviso dagli altri membri della stessa società.
*Angelica Costa, sociologa urbana e comunicatrice, è dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e docente presso il Corso di laurea in Urbanistica dell’Università Mediterranea