di Anna Foti – Perde un altro testimone, uno dei pochi sopravvissuti, la storia della strage di Cefalonia scritta con il sangue sull’isola greca all’indomani dell’armistizio di Cassibile ufficializzato l’8 settembre 1943 e siglato tra il Regno d’Italia e gli Alleati. Per venti lunghi giorni, Cefelonia fu teatro dell’eccidio della Trentatreesima Divisione Aqui, una della grandi Unità del Regio esercito, che oppostasi al disarmo imposto dai tedeschi, fu duramente attaccata. Soldati italiani, e tra questi anche calabresi, furono vittime di fucilazioni, rappresaglie, deportazioni ed internamenti.
E’ morto lo scorso 11 gennaio, all’età di 94 anni, il soldato del 17° reggimento di fanteria Gaetano Renda, nato nel 1923 a Sambiase, ora territorio ricadente nel comune di Lamezia Terme, insignito lo scorso 2 giugno della medaglia d’onore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riconoscimento introdotto da una legge solo nel 2006 per coloro che, sopravvissuti al fuoco sull’isola, furono poi deportati ed internati nei lager nazisti. Questo fu proprio il destino di Gaetano Renda, rientrato in Calabria solo a guerra finita. Dopo la repressione, mentre il Re e i suoi generali abbandonavano italiani e quindi anche i soldati che avevano mandato in guerra, i sopravvissuti venivano imbarcati su 4 navi dirette ad Atene e poi costretti a scegliere se collaborare o meno con i tedeschi. Per chi non si fosse dichiarato disponibile, la punizione sarebbe stata la deportazione in un campo di lavoro forzato. Così fu per Gaetano Rende, deportato prima nel campo di prigionia di Vilnius nella Russia Bianca, poi, seguendo le truppe di Hitler in ritiro, a Pruzany e infine a 100 Km da Varsavia. Qui la guerra diede tregua e Gaetano Renda. Con un treno tornò fino al Brennero e poi arrivò a Verona. Da qui altri treni condussero ciascuno a destinazione. I primi volti familiari che Gaetano ritrovò furono quelli del cognato e del fratello, poi quelli del padre e della fidanzata.
Una vita umile quella di Gaetano Renda. Suo padre era muratore e sua madre si prendeva cura dei fratelli nati da due matrimoni. Aveva iniziato a raccogliere le olive a 10 anni, dopo avere frequentato le prime classi elementari. Una vita di lavoro e una gioventù vissuta con pochi svaghi, tanti sacrifici, tanti doveri, compreso quello dei essere fascista senza condividere il regime, e poi in guerra. Nella sua testimonianze ha riferito della visita di Vittorio Emanuele III, di quella di Mussolini a Santa Eufemia in occasione della bonifica della Piana. La maggiore età arrivò in tempo per la chiamata alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel gennaio del 1943, appena ventenne, fu arruolato nel 61° reggimento Fanteria della brigata Sicilia con destinazione Trento. Quindi fece tappa a Montecorvino nel salernitano, poi Brindisi e nel giugno del 1943 l’arruolamento nella brigata Savona; quindi l’imbarco per la Grecia, l’assegnazione al 17° Reggimento della Divisione Acqui, prima a Patrasso e successivamente, nel luglio, ad Argostoli, capoluogo dell’isola di Cefalonia. Di seguito il racconto di quei giorni concitati del settembre del 1943 riportata su Calabria in Armi (http://calabriainarmi.altervista.org/).
“Ascoltammo l’ annuncio all’a vicina emittente della Marina. I nostri soldati esultarono e festeggiarono sparando in aria, verso il mare. Gli ufficiali intervennero subito per frenare gli entusiasmi. Ci dissero che il nemico era alle nostre spalle e avremmo dovuto difenderci, se attaccati. La notte ci misero in marcia; sostammo dopo un cammino di alcune ore. Al mattino dopo venne un maggiore che disse essere di Nicastro ( probabilmente Galli ndr) e ci invitò a consegnare le armi ai tedeschi perché ci avrebbero portati in Italia. Non accettammo la proposta , temevamo per la nostra libertà e per la vita: i nostri ex alleati ci avrebbero presi prigionieri e avviati chissà dove. Non immaginavamo quello che sarebbe successo in seguito. Avevamo le armi e le munizioni, anche se non erano giunti altri rifornimenti. Un colonnello di artiglieria ci disse di andare a tenere fermi i tedeschi: questo fu un ordine che condividemmo tant’è che in fila indiana ci mettemmo subito in cammino verso le postazioni utili. Lo scontro iniziò anche a colpi di cannone e di mitraglia. Un aereo tedesco fu abbattuto dalla nostra Marina. Ma dopo si scatenarono gli Stukas che bombardarono per l’ intera giornata. Continuammo a combattere e ad andare all’ assalto al grido di “Savoia!” ;costringendo i tedeschi alla resa . Catturammo molti prigionieri in quella fase della battaglia… Ma non era finita: Il mattino seguente gli Stukas tornarono e bombardarono il comando italiano. Vidi la scena da vicino tanto da assistere alla sua distruzione. In seguito il nostro raggruppamento fu trasferito sull’ altro lato dell’ Isola di Cefalonia . Fu li che i greci abitanti del posto ci informarono delle fucilazioni di massa dei nostri commilitoni di Argostoli. I tedeschi avevano ricevuto i rinforzi che vinsero la nostra resistenza e per 48 ore ebbero mano libera per compiere la strage. Uccisero TUTTI i miei compagni. Nella parte dell’ isola dove mi trovavo-prosegue Renda- vennero portati da Argostoli 9 marinai e alcuni civili. Ci fecero scavare una fossa e mentre lavoravamo con il dubbio che era giunta la nostra ora un soldato tedesco disse che non era destinata a noi. Infatti i marinai ed i civili furono fatti entrare dentro lo scavo ed uccisi a colpi di mitraglia, coperti con poca terra e lasciata compiere a noi la sepoltura definitiva. Non siamo stati fucilati forse per due motivi: per non avere sparato contro i nostri avversari e perché loro erano ormai sazi di sangue italiano dopo il massacrato di ottomila nostri soldati, imposto da Hitler. A sopravvivere fummo circa 4000. Nelle ore che seguirono ci portarono sul luogo dell’ eccidio per bruciare i cadaveri dopo averli cosparsi di benzina”.
La divisione Aqui a Cefalonia, formata da 10.000 uomini comandati dal generale veneto Antonio Gandin alle dipendenze dell’11° armata impegnata a presidiare le isole Ionie (tra Corfù e Cefalonia), e dunque con mansioni di vigilanza e controllo su golfo di Corinto e mar Egeo, rimase compatta e non cedette al ricatto degli ex alleati, continuando a ‘resistere’ in forma autonoma ed organizzata. Combatté contro coloro al fianco dei quali aveva combattuto negli ultimi tre anni e che adesso invadevano il suolo italiano. Difesero così ad oltranza la Patria e l’onore vilipeso.
Un tracollo annunciato ma inevitabile, data la scelta di non cedere al ricatto di resa imposto dai Tedeschi e nonostante l’’abbandono’ della madrepatria. Ordini confusi, nessuna possibilità di movimento, richieste di soccorsi ignorate. Quindi la scelta, tra cedere o combattere, nonostante l’annuncio, falsario di Libertà, della fine della Guerra. Una superiorità numerica Italiana che miseramente naufragò sotto il peso dell’artiglieria tedesca a Cefalonia.
Fu ugualmente battaglia durissima fino dall’epilogo drammatico. Oltre mille in caduti in combattimento poi la strage con diverse migliaia (alcune fonti parlano di 5000) negli ultimi giorni fino al 24 settembre 1943. Di fatto condanne a morte senza processo per i traditori Italiani, un tempo alleati, che avevano osato resistere e far tuonare senza sosta i cannoni. Duemila persone furono deportate. Tremila sarebbero addirittura affogate, per l’esplosione di mine, a bordo dei piroscafi diretti ai lager tedeschi.
Una guerra dentro la guerra di cui ad oggi non è neppure certo il numero delle vittime. Due soli colpevoli: il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d’armata truppe da montagna della Wehrmacht, condannato dal tribunale di Norimberga a 12 anni di reclusione di cui ne scontò solo tre (pare che per l’Italia nessuno si presentò a processo per testimoniare); il caporale della Edelweiss, Alfred Stork condannato all’ergastolo nel 2013, dopo avere confessato, dal tribunale militare di Roma per il massacro compiuto nel settembre del 1943 sull’isola di Cefalonia su ordine di Hitler.
Poche condanne rispetto alle inchieste avviate sia in Germania che in Italia. Nel 1957 in Italia furono prosciolti alcuni ufficiali della Acqui accusati di aver istigato soldati contro i tedeschi; un altro processo nello stesso anno contro 30 ex soldati tedeschi non ebbe seguito. Nel 1964 in Germania vi fu un’altra inchiesta, archiviata e poi ripresa nel 2001, a carico di sette ex ufficiali della Wehrmacht, tra i quali Otmar Muhlhauser, capo del plotone di esecuzione che fucilò il generale Gandin, poi dichiarato, unitamente ad altri sei imputati, responsabile di omicidio semplice e non di crimine di guerra e dunque nel 2007 prosciolto dalla procura di Monaco di Baviera.
In Italia un’altra indagine fu avviata dopo la denuncia di due donne italiane orfane di padre, ucciso a Cefalonia. La procura militare di Roma processò nel 2009 solo Muhlhauser che nel luglio successivo, all’età di ottantanove anni, morì,
Infine nel 2010 il tribunale militare di Roma avviò un’inchiesta a carico degli ottantaseienni Gregor Steffens e Peter Werner, accusati di aver ucciso 170 soldati italiani e dichiaratisi innocenti a Roma, come già negli anni Sessanta a Dortmund. Le indagini sono ancora in corso.
Una giustizia parziale ed una memoria che solo negli ultimi anni non è più dannata. Nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, seguito poi da Giorgio Napolitano che nel 2007 celebrò a Cefalonia l’anniversario della Liberazione, ha definito la scelta dei soldati italiani sull’isola greca il primo atto di Resistenza nell’Italia appena liberata da Fascismo.