di Anna Foti – Era con la sua famiglia quando fu eseguita la sentenza di morte che la ndrangheta aveva emesso nei suoi confronti. Era il 9 settembre del 1990. A Bovalino, durante i festeggiamenti mariani, diversi colpi di arma fuoco ferirono il brigadiere Antonino Marino al punto da causarne la morte. Il figlioletto, di solo un anno, e la moglie incinta rimasero lievemente feriti. Il brigadiere, originario di San Lorenzo, cui nel 2011 è stata intitolala la caserma dei carabinieri di Platì che comandò a lungo, è stato ricordato a davanti alla tomba di famiglia e con una Messa a Bovalino, in occasione del ventiquattresimo anniversario dell’omicidio alla presenza delle massime autorità.
La verità giudiziaria su questo delitto è arrivata dopo 24 anni, nel giugno scorso, quando la corte di Assise d’Appello di Reggio Calabria, dopo un iter giudiziario complesso, ha condannato a trenta anni di reclusione Francesco Barbaro, 58 anni, e Antonio Papalia, 75 anni, ritenuti rispettivamente l’esecutore materiale ed il mandante dell’omicidio.
Le indagini si sono chiuse nel 2012, ventidue anni dopo quei colpi di fucile sparati contro un uomo, servitore dello Stato ma anche marito di Vittoria, in quel momento in attesa di un altro figlio, e già padre di Francesco, oggi tenente dell’Arma. La sentenza del giugno scorso ha ribaltato l’esito del precedente giudizio di secondo grado a cui era seguita una prima sentenza di assoluzione contro i presunti autori e i mandanti, tutti componenti della cosca della ‘ndrangheta di Platì Barbaro-Papalia.
La Cassazione, in ultimo grado di giudizio, ha ritenuto l’intercettazione di Agostino Catanzariti, tratta da un’indagine condotta in Lombardia dalla DDA milanese avente ad oggetto il radicamento in loco delle ‘ndrine di Platì e dalla quale emergevano alcuni dettagli di un delitto consumatosi nella Locride, elemento nuovo e sufficiente per annullare la sentenza e rinviare a nuovo collegio che lo scorso giugno si è pronunciato in senso diametralmente opposto.
Alla base del delitto, la seria attività di controllo del territorio complesso come quello di Platì, dove il brigadiere fu a lungo comandante della locale stazione dell’arma che oggi porta il suo nome. Profondo conoscitore della criminalità organizzata della Locride, il brigadiere Marino si era occupato di varie indagini su traffici illeciti e di numerosi sequestri di persona che in quegli anni imperversavano. Dopo il suo matrimonio con Vittoria, originaria della Locride, nel 1988 venne trasferito a San Ferdinando ma il disegno di vendetta fu compiuto ugualmente quanto il brigadiere tornò a casa per quello che sarebbe stato il suo ultimo periodo di ferie nel 1990. Aveva solo trentatre anni, di cui quindici trascorsi a servire il Paese a contrastare la ndrangheta degli anni Ottanta con la divisa dell’arma.
Un controllo serrato del territorio, dunque, e da qui il progetto di una vendetta di sangue portato drammaticamente a segno. Di questa attività, che evidentemente insidiava gli affari della ndrangheta, aveva riferito il collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola, della cosca Paviglianiti di San Lorenzo nel reggino, quindici anni dopo il delitto; ma la svolta per l’accertamento delle responsabilità sarebbe arrivata con l’indagine “Platino” della Dda di Milano.
Erano anni bui quelli in cui furono sparati questi colpi mortali, che non furono gli unici esplosi contro servitori dello Stato. Sotto la violenza mafiosa caddero anche il brigadiere Carmine Tripodi a San Luca, gli appuntati Vincenzo Garofalo, nato a Scicli nel ragusano, e Antonino Fava, nato a Taurianova nel reggino uccisi da una raffica di kalashnikov il 18 gennaio 1994 sull’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria all’altezza di Scilla, mentre erano di scorta. Non avevano neppure quaranta anni e lasciavano le mogli Giuseppina e Antonia, rispettivamente con due e tre figli. Una targa li ricorda, ne racconta la storia all’ingresso della scuola Allievi Carabinieri di Reggio Calabria. Altri rischiarono di non sopravvivere agli agguati tesi come Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardi, altri rimanevano feriti sulla ss 106 come accadde a Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra.
Il 2 settembre 1993 al brigadiere Antonino Marino è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile con la seguente motivazione “Comandante di Stazione impegnato in delicate attività investigative in aree caratterizzate da alta incidenza del fenomeno mafioso, operava con eccezionale perizia, sereno sprezzo del pericolo e incondizionata dedizione, fornendo determinati contributi alla lotta contro efferate organizzazioni criminali fino al supremo sacrificio della vita, stroncata da vile agguato. Splendido esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere”.