di Enzo Vitale – L’avvelenarsi del confronto politico reggino, troppo diretto e “sincero”, mi spinge a una riflessione sul ruolo dialettico dell’ipocrisia. La porgo a un’ipotetica platea di
lettori, tra i quali ci auguriamo possano essere ascritti i nostri amministratori, e che potrei titolare col verso “Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!” (“Ipocrita lettore, mio simile, fratello!”, verso conclusivo della prima poesia, introduttiva e dedicata al lettore, de Le Fleurs du Mal di Charles Baudelaire – Parigi, 1855 – tradotto da Mauro Bonfantini).
Ipocrisia: simulazione di buone qualità o di buoni propositi attraverso azioni o atteggiamenti falsamente virtuosi, per ingannare qualcuno o per ottenerne i favori. Questa la definizione tratta dal “Grande dizionario italiano dell’uso” curato da Tullio De Mauro per l’Utet. Sugli altri dizionari le spiegazioni del lemma quasi si ricalcano. Nel linguaggio parlato e secondo l’accezione più comune del termine, che stiamo adottando, la definizione di ipocrisia non va comunque oltre la virgola, tralasciandone quindi le finalità.
Ma è davvero tanto esecrabile essere un tantino ipocriti; è davvero così grande peccato condire con un po’ d’ipocrisia i rapporti umani? Per esprimere un giudizio insindacabilmente negativo anche su un suo modesto uso occorrerebbe poter valutare le persone e le circostanze in cui queste hanno agito: l’essere in grado di aggiungere una piccola dose d’ipocrisia al proprio relazionarsi a volte può essere una virtù, che non tutti hanno, che tutti dovrebbero avere.
E allora, “Hypocrite lecteur” non aver paura d’intingere la tua penna o di umettarti le labbra con un po’ d’ipocrisia, che certamente non è un così orrendo crimine se aiuta a rendere più sopportabile il prossimo o, meglio, a renderci più sopportabili al prossimo.
Accettiamo quindi la definizione di ipocrisia, che non troveremo mai in nessun dizionario, che ho letto a metà degli anni Novanta su di un Nautilus domenicale di Repubblica, a firma del compianto Beniaminio Placido, e che ho affettuosamente conservata. È del moralista settecentesco François de La Rochefoucauld: “L’hypocrisie est un hommage que le vice rend à la vertù!” (“L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù”). Bella, elegante e indecifrabile, va assaporata.
Passando dalla morale alla politica, eccone un’altra, tratta sempre dallo stesso Nautilus, dello scrittore francese Georges Bernanos: “Le democrazie non possono fare a meno di essere ipocrite, più di quanto i dittatori possano fare a meno di essere cinici”. Ha ragione Bernanos, perfettamente ragione: si immagini per un attimo un Parlamento in cui ogni deputato dicesse ciò che pensa veramente e in cui, così, non si arrivasse mai a un accordo.
E ancora dalla stessa fonte, scivolando in campo artistico, un’ulteriore definizione. È di André Gide: “L’arte ha avuto il massimo splendore nelle epoche più ipocrite. L’ipocrisia è una fra le condizioni dell’arte. Il dovere del pubblico è di costringere l’artista all’ipocrisia”. Secondo Gide alla base della produzione artistica vi sarebbe l’ipocrisia: opinione alquanto discutibile ma, vista l’alta provenienza, tutto sommato da non considerare proprio campata in aria.
Tornando a La Rochefoucauld (“L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù”), tentiamo di decrittarne l’enigmatica espressione, dopo averla letta e riletta. La si può leggere in tre modi: 1) un atto di sottomissione del vizio alla virtù, un riconoscimento della sua superiorità; 2) davanti alla virtù il vizio non si manifesta, ma si mimetizza tramite l’ipocrisia; 3) il vizio regala alla virtù l’ipocrisia, sì che questa si sublima cambiando registro: non è più un vizio, diventa una virtù.
Questa subdola e insinuante “virtù”, appannaggio di chi con la saggezza della maturità ha perso il giovanile “vizio” dell’eccessiva schiettezza e sincerità, è parte integrante di un civile vivere politico.
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