di Anna Foti -Ci sono storie di resistenza straordinarie in questa terra. Storie che si ha l’obbligo di raccontare e di non dimenticare nonostante, potendo scegliere, chi le abbia vissute avrebbe preferito non esserne protagonista. Liliana faceva la maestra elementare e avrebbe voluto solo vedere suo figlio compiere il trentunesimo compleanno, e tutti quelli successivi che la vita gli avrebbe donato, piuttosto che sopravvivergli e portarne una foto al collo.
La morte lo ha strappato a lei, al padre Franco, agli altri due fratelli, a quella vita brutalmente impedita, rimasta a meno di metà. Avrebbe fatto a meno, Liliana, di una vita di lotta per la verità e la giustizia per la mostre del figlio, per quella cieca violenza che in Calabria turba la vita di tante famiglie, strappando affetti, condannando al dolore della perdita senza ritorno e, troppo spesso, anche senza la possibilità di una giustizia.
Ma invece quella guerra lei deve combatterla, non può sottrarsi da madre, da nonna, da cittadina di questo paese troppo spesso impegnato in proclami che invochino, più che in fatti che rispettino la dignità e la memoria.
Non ha scelta, Liliana, perché è coraggiosa e determinata e la sua libertà di decidere l’ha già esercitata a monte quando ha deciso da che parte stare, quando ha deciso di non subire, di non tacere, di dire agli inquirenti tutto ciò che sapeva, di indicare loro una pista e di trovare anche le prove per sollecitare quelle indagini lente, tardive, lacunose.
La sua è coerenza limpida, a tratti ruvida, spigolosa e granitica allo stremo, ma sempre specchio di dignità e rara qualità; ecco perchè questa storia, nonostante l’amarezza e il dolore ne costituiscano la radice unitamente all’amore di madre, è oggi preziosa e irrinunciabile.
Lei è Liliana Esposito Carbone ed è la madre di Massimiliano, ucciso nel 2004 a Locri. Aveva solo trent’anni, suo figlio. Era il 17 settembre quando gli spararono sotto casa, in un agguato tesogli nel cortile. Massimiliano stava rientrando da una partita di calcetto con il fratello Davide. Un colpo al fianco, un lungo intervento prima di morire in ospedale dopo sette giorni di agonia, il 24 settembre.
“[…] Massimiliano Carbone, trentenne di Locri. Una storia limite, nel bene e nel male. Una storia rimossa dalla coscienza collettiva perché scomoda. Ma non dimenticata, grazie al coraggio e alla tenacia di una madre da anni in cerca di giustizia e verità, spesso sola e controcorrente.Tutti sapevano nel quartiere della storia di Massimiliano con quella donna più grande di lui. Le voci circolano in fretta a Locri. Le visite frequenti in quella casa, solo e sempre quando il marito non c’era, erano più che una confessione Ma in pochi avevano capito che il piccolo era proprio figlio di quel giovane uomo. Non è più una questione di passioni, ma di scelte di vita. A venticinque anni, Massimiliano è pronto a fare la sua parte, ma la donna che ha dato al mondo il suo primo figlio (primo per Massimiliano ma non per la donna) tentenna. Il bambino glielo fa vedere in fugaci momenti rubati al menage familiare, nell’androne del palazzo dove abita. Anche la nonna Liliana Esposito ha il permesso di conoscere quel suo nipote segreto. Cercano di convincere la madre a dare al bambino il suo vero cognome, a lasciare tutto e a ripartire da zero. Ma come nelle peggiori fiction televisive, quella donna decide di continuare la propria vita e fare finta di nulla: forse è il prezzo che deve pagare per il suo adulterio, forse ha paura della reazione del marito. Resta quel bambino a testimonianza di un amore impossibile […]” (tratto da “Dimenticati” di Danilo Chirico e Alessio Magro – Castelvecchi)
Resta, appunto, e sopravvive anche a suo padre quel figlio che ad un certo punto Massimiliano avrebbe voluto riconoscere come suo. La sua intenzione, un diritto per lui ma un affronto per altri, lo avrebbe condannato: la punizione sarebbe stata la morte. Mamma Liliana è ancora lì a quel capezzale mentre promette al figlio di occuparsi del nipote segreto, ma è anche ogni giorno in trincea, in tutti i luoghi in cui in questi anni ha rivendicato il suo diritto di madre e di nonna, fiera e tenace, a vedere sancita la verità. Ogni giorno è al cimitero in compagnia dei gatti che si sono raccolti in questi anni vicino alla tomba di Massimiliano che tanto li amava.
Liliana non si è mai arresa, neppure dinnanzi all’omertà e alla indifferenza di tanti. Grazie alle parole di don Ciotti e di Giancarlo Maria Bregantini, all’epoca vescovo della diocesi Reggio Calabria Locri, all’impegno di Demetrio Costantino del Cids e di altri amici, la sua battaglia per la verità prosegue. Non rinuncia a dire quello che sa. Lo fa dal primo minuto. E’ stata sempre da sola a parlare e a fornire elementi agli inquirenti, a raccontare di quella storia con una donna più grande di cui Massimo era innamorato. Ha scritto alle più alte cariche dello Stato, ha protestato davanti al tribunale di Locri, alle ultime regionali non è andata a votare per protesta.
“Egregio Signor Prefetto. con sconforto che si accresce nel trascorrere degli anni e nella Giustizia negata, ancora una volta come dall’aprile 2006, rinuncio al mio diritto ed al mio dovere di cittadina in occasione delle prossime Elezioni Regionali”, così ha scritto nel novembre 2014. Erano trascorsi dieci interminabili anni e le indagini non avevano imboccato alcuna direzione utile all’accertamento di responsabilità. Ad oggi ne sono passati undici di anni e nulla è cambiato.
La quotidianità di questa donna, di questa madre calabrese, con la foto del figlio sul petto forzatamente racchiusa in un ciondolo, la sua fierezza quando parla di lui, uomo generoso e dedito al prossimo, impegnato professionalmente in una cooperativa di servizi sociali ed un appassionato tifoso amaranto, sono state raccontate nel documentario “Oltre l’Inverno” (http://www.oltrelinverno.blogspot.com) realizzato da Massimiliano Ferraina, documentarista, Claudia Di Lullo, dialoghista, Raffaella Cosentino, giornalista freelance (Redattore Sociale, Il Manifesto).
Non sono stati mancati i tentativi di delegittimazione, che per una donna sono sempre più facili da esperire. Il più comune è stato: ‘Liliana Carbone, resa pazza dal dolore’, come ha ricordato Francesca Chirico nel suo libro di storie di donne ribelli in terra di ndrangheta, che come Liliana non hanno taciuto, “Io parlo” (collana Rx La terra vista dalla terra – Castelvecchi). Questa storia è anche tra quelle raccolte nel volume “Calabria ribelle – Storie di ordinaria resistenza” di Giuseppe Trimarchi (Città del sole edizioni).
Come tutte le terre in cui i diritti vacillano e la violenza è rimasta a lungo, a volte resta ancora, impunita, anche in Calabria vivono le madri coraggio come Liliana e come Angela che calabrese non era ma che in Calabria, nella Locride alla fine degli anni Ottanta, ha vissuto, con il dramma del sequestro del figlio Cesare, dolorosamente la sua maternità.
Proprio come raccontava lei, Angela Casella, per tutta Italia ‘madre coraggio’, scesa nella Locride per liberare il figlio in mano all’Anonima sequestri da oltre 500 giorni e morta nel 2011: ‘Combatto contro qualcuno che non vedo e non sento, ma che esiste e imprigiona mio figlio’.
Liliana Esposito Carbone invece combatte anche contro qualcuno che conosce e che ancora imprigiona la memoria, per molti vitale e per altri scomoda, di suo figlio Massimiliano.