
di Anna Foti – I draghi per tenere il male lontano ed i delfini per sfidare le avversità ed uscirne indenni. Simboli apotropaici e salvifici con cui i Greci adornavano i luoghi e attraverso
i quali esprimevano la loro concezione della natura, della vita e del mondo. Saggezza e sapienza antiche, pur se con qualche ingenuità nella tecnica costruttiva, nella straordinaria scoperta del mosaico di epoca ellenistica più grande certamente della Magna Grecia e della Sicilia, forse dell’intero Stivale, rinvenuto in tutto il suo splendore l’estate scorsa a Monasterace, in provincia di Reggio Calabria, nei pressi della Casamatta (piccola struttura in cemento edificata per l’avvistamento del nemico), nel cuore del parco archeologico della cittadina jonica, al di qua della “porta marina” rinvenuta da Paolo Orsi.
Una scoperta che, unitamente alle campagna di scavi dei primi anni del Novecento ed agli studi lungimiranti dell’archeologo trentino, sta ristabilendo la verità sulla storia antica e gloriosa della colonia greca che fu Kaulon, prima con Sibari, Crotone e Reggio, a coniare monete d’argento nella Magna Grecia ed erroneamente associata al territorio limitrofo di Castelvetere (odierna Caulonia) che ai tempi del regime fascista, ignorando le scoperte di Paolo Orsi del 1890, vide mutare il suo nome in Caulonia.
Invece l’antica Kaulon, Capo Concitum (Concythum promontorium) e oggi faro di Punta Stilo, sorgeva dove attualmente insiste Monasterace Marina, crocevia di commerci e di approdi alla foce della fiumara d’Assi, teatro, nella sua zona più orientale, della recente ed eccezionale scoperta del mosaico pavimentale, di quella che è stata battezzata come “la sala dei Draghi e dei Delfini”; in realtà il completamento della scoperta che lo scorso anno attirò studiosi e turisti nell’estremo comune della provincia di Reggio Calabria per ammirare il mosaico che fino ad allora sembrava decorato con l’immagine di un unico Drago, già in quell’occasione riconosciuto il più grande di epoca ellenistica del Meridione.
Quella figura di Drago marino, già di per se preziosa, in verità ne aveva al suo fianco un’ altra di uguali dimensioni e raffigurante un Delfino. Posizionato all’ingresso della sala è un rosone contraddistinto da una rosetta policroma a dodici petali così come anche il mosaico del drago nell’omonima casa, sempre nell’antica Kaulon, – esso indica l’allontanamento del male e la presenza del bene, dunque l’auspicio, per chi faceva ingresso nella sala, circa il raggiungimento dell’armonia del corpo e dell’anima.
Fanno parte dello stesso tappeto musivo, posizionati lungo una fascia presente su tre lati, altre figure tra di loro affrontate che si susseguono in sequenza: Delfino /Drago-Delfino/Drago-Ippocampo/Delfino.
Su una superficie complessiva di circa 25 metri quadrati, in posizione centrale, spiccano anche nove quadrati decorati a cassettoni con motivi floreali. Un’opera articolata ed una cronologia oscillante tra la fine del IV ed i primi decenni del III secolo avanti Cristo, il pavimento era sepolto sotto i resti crollati della volta che ha notevoli analogie con il sistema di copertura già rinvenuto nel calidarium delle terme del parco archeologico di Fregellae in località Isoletta d’Arce, in provincia di Frosinone.
Una sala pavimentata con un straordinario tappeto di pietre colorate, come ha definito il mosaico l’archeologo Francesco Cuteri che, sotto la direzione scientifica di Maria Teresa Iannelli, della Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria, ha coordinato le attività di scavo ad opera di studenti provenienti da varie università italiane e dall’ateneo di Bahìa Blanca, in Argentina. Monasterace dal punto di vista didattico è stata pioniera; da decenni ospita giovani studenti universitari e li impegna in attività di indagine sui monumenti dell’antica Kaulon. E’accaduto con la Normale di Pisa, impegnata sui resti del Tempio Dorico*, e con l’Università di Firenze, di Cosenza e di Reggio Calabria.
La scoperta di tale pavimento ha del clamoroso e non solo per la bellezza e la precisione dei mosaici realizzati a più mani, ma anche e soprattutto per la tecnica con cui sono stati realizzati – segnante il passaggio dall’utilizzo dei ciottoli all’uso dell’opus tesselatum (antesignano dell’opus vermiculatum) – per la sapiente rifinitura in lamina di piombo del Delfino grande, per i colori bianco e rosso, azzurro intenso e nero, per la cosiddetta marmorizzazione che riproduce le chiazze di colore del marmo sulla pietra. Tale scoperta è eccezionale e di importante interesse archeologico poiché si tratta di un edificio termale di età ellenistica complesso molto raro di cui sono noti solo altri quattro esemplari in tutta Italia: tre in Sicilia, a Morgantina in provincia di Enna, a Gela in provincia di Caltanissetta e a Siracusa, ed uno in provincia di Salerno, a Velia nel comune di Ascea. Un complesso termale di età ellenistica, dunque, e non romana come quello testimoniato da una moltitudine di esempi anche in Calabria, come per esempio la villa di Casignana in provincia di Reggio.
Una conclusione di indubbia rilevanza cui si è addivenuti, anche grazie alle altre risultanze di questi scavi avviati nel 1998 e protrattisi, quindi, per 15 anni.
L’inquadramento storico è stato ricavato, come da manuale, dall’analisi dei materiali rinvenuti nel crollo che ha consentito di datare la fase d’uso dei vani, il momento del loro abbandono e che, dunque, ha permesso di ricostruire la storia del complesso medesimo. Tale studio ha ricostruito le strutture termali risalenti agli albori IV – III sec. a.C.. L’iscrizione “Nannon” rinvenuta sull’orlo di un calderone ha fatto, in un primo momento, pensare che le terme fossero state edificate da questo architetto ma in realtà l’iscrizione potrebbe essere relativa ad una dedica da parte di un personaggio di nome Nannon. Servirebbero ulteriori riscontri.
Le ricerche hanno ricostruito un edificio termale particolarmente monumentale (oltre 35 metri quadri per 17), restituendo alla luce ambienti di rappresentanza ed altri di attesa con panche in muratura, un grande vano di forma circolare con almeno cinque vasche da bagno in terracotta per abluzioni singole, in parte oggi esposte nel museo, un ipocausto, ossia una fornace, per il riscaldamento dell’acqua, una piscina rettangolare ubicata nell’ambiente pavimentato a mosaico e munito di panche. Impreziosiscono il tutto le tracce di intonaco rosso sulla pareti di cui si conserva lo zoccolo di base.
Fino al 2007 – 2008 si è ritenuto che anche questo edificio fosse una casa ma il completamento degli scavi ha recentemente delineato la nuova interessante scoperta, anche in Calabria, di un impianto termale di primissima fattura. Un edificio cui è attribuita una connotazione pubblica, che intorno alla prima metà del III secolo a.C. è divenuto un articolato complesso termale e che nella seconda metà del III secolo a.C. è stato adibito al culto collettivo rivolto, probabilmente, a divinità fluviali connesse all’acqua, quale elemento vitale purificatorio e salvifico. Lo attestano anche gli studi condotti su alcune monete.
Tale edificio, in cui furono ritrovati alabastra ed altro vasellame misto a quantità di carboni, è stata presumibilmente abbandonato intorno alla prima metà del II secolo a.C..
Il prezioso mosaico, sito nell’ ambiente H del complesso termale, è ancora “in cura” e lo sarà ancora per qualche altra settimana fino a quando non sarà stato completamente ripulito e messo in sicurezza. Il suo futuro? Interrarlo provvisoriamente per preservarlo dalle aggressioni del tempo finchè non si riesce a reperire un finanziamento congruo a finire il restauro di tutti gli ambienti e realizzare la copertura dell’intero edificio; si prevede una spesa pari a circa un milione di euro.
I primi a rispondere a questo appello sono stati, gli studenti della scuola media “Amerigo Vespucci” di Vibo Marina che hanno raccolto e devoluto la somma di tremila euro al pagamento del vitto e dell’alloggio per i venticinque studenti che per più di un mese hanno lavorato allo scavo di questo eccezionale complesso archeologico Un gesto di partecipazione anim
ato da senso civico e responsabilità assolutamente degno di nota e meritorio che, tuttavia, non basta a garantire a questo parco archeologico un futuro adeguato al valore eccezionale delle preesistenze archeologiche che custodisce e degli studi che ha consentito.
La storia e la scoperta dell’antica Kaulon
Fondata da Kaulo, eroe della guerra di Troia, sotto il controllo siracusano fin dalla debacle nel 389 avanti Cristo al cospetto delle forze congiunte dei Lucani e di Dionisio I di Siracusa, Kaulon fu ricostruita da Dionisio il Giovane. Fu poi preda di Annibale nella seconda guerra punica, e poi di Quinto Fabio Massimo nel 205 avanti Cristo. La città non risorge in epoca romana.
L’area sacra del Tempio dorico, la necropoli nella zona a monte del cimitero moderno ed il tempio di Passoliera, ubicato fuori delle mura di cinta, il patrimonio rinvenuto grazie alla ricerca di Paolo Orsi che, nel 1890, per primo individuò in questo angolo di Calabria l’antica Kaulon, allorquando la classificò come sub colonia di Crotone (antica Kroton), eterna rivale della vicina Locri, (antica Lokroi). Allora Orsi appose il vincolo sul monumento del Tempio Dorico. Fu poi il soprintendente Alfonso De Franciscis nel 1957, a porre sotto tutela tutta la città antica. La storia dei vincoli è peculiare per l’antica Kaulon che fu antesignana anche in questo.
Significativo anche il patrimonio sommerso e restituito dal mare tra cui gli imponenti resti del tempio Ionico esposti al museo. Una ricchezza consacrata nel vincolo cui è sottoposto anche lo specchio di mare antistante il parco.
Furono proprio i ritrovamenti successivi (2005) a delineare una diversa interpretazione della colonia di Kaulon, non più sub colonia di Crotone, come Paolo Orsi aveva ipotizzato, ma insediamento primario fondato dagli Achei nell’VIII secolo a.C. Ad attestarlo anche il rinvenimento di numerose monete in argento coniate con il metallo estratto nella vallata dello Stilaro. Le più antiche risalgono alla seconda metà del VI secolo a.C. e si classificano come “stateri incusi”, con figure e iscrizione non a doppio rilievo ma incavate sul rovescio e rilevate sul diritto, con una figura maschile nuda dai lunghi capelli ed un’altra sul un lato , più piccola con accanto un cervo con la testa rivolta all’indietro, , e la scritta in greco Kaul dall’altro.
Il Parco Archeologico ed il Museo dell’antica Kaulon
Il direttore scientifico degli scavi, il funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, competente per un ampia territorio della provincia reggina, Maria Teresa Iannelli, non disgiunge il recupero e l’adeguata valorizzazione di questa strabiliante scoperta, che la scorsa estate ha attirato al parco ed all’annesso museo oltre tremila persone, dal rilancio di tutto il parco archeologico di Monasterace.
L’antica Kaulon sorge alle pendici del faro di Punta Stilo e comprende l’area sacra con gli imponenti resti del tempio dorico (basamento del tempio stesso e dell’altare in arenaria, la gradinata ed altre strutture) e la cosiddetta Casa del Drago, il cui nome deriva dal mosaico raffigurante un drago marino, col dorso coperto di aculei e la coda di pesce, rinvenuto in una delle abitazioni dell’antica città, di cui costituiva l’accesso. Rinvenuto alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, fu strappato ed esposto al Museo Nazionale di Reggio Calabria; adesso (dallo scorso 15 giugno) il mosaico è esposto presso il museo archeologico di Monasterace nell’attesa di ritornare nel sito originario, cioè la soglia della sala da pranzo in cui è stato rinvenuto. Siamo nel cuore del parco, nella zona indagata da Paolo Orsi, ubicata sul “fronte a mare”, dunque particolarmente debole perché raggiungibile proprio dal mare. Non è un caso che proprio in questa zona sorgesse la principale area destinata alla vita religiosa della comunità, il maestoso tempio Dorico, e che la stessa area costituisse un riferimento per la struttura viaria dipanatasi parallelamente al mare per raggiungere, oltrepassando l’attuale tratto ferroviario e la SS 106, i rilievi collinari, con isolati allungati. Secondo un piano urbanistico, che gli archeologi definiscono di tipo Ippodameo in onore dell’architetto Ippodamo di Mileto, il sistema delle strade procedeva per strigas, ossia isolati stretti e lunghi.
Il parco, che costeggia il mar Ionio, ha riportato alla luce, oltre alla vasta area sacra, anche un ampio settore dell’abitato dell’antica Kaulon – tra cui spicca la casa del Drago – e molte case che si sono conservate a livello delle fondazioni dei muri, consentendo pregevoli studi, utili alla ricostruzione della storia del sito. Preziosi e notevoli sono stati i dati restituiti dai vari strati terrosi che si sono sovrapposti o accostati gli uni agli altri.
Il rilancio e la valorizzazione dell’area, invocata dall’archeologa Maria Teresa Iannelli sono dettati anche dall’urgente necessità di salvaguardare il parco dall’erosione costiera e dall’avanzamento del mare che è ormai arrivato solo a pochi metri dal parco stesso. Quello specchio di mare ed i suoi fondali, che nell’ambito degli scavi precedenti avevamo già restituito i preziosi e maestosi resti di un Tempio Ionico (esposti all’ingresso del museo) sono sottoposti a vincolo già dagli anni Ottanta.
Oltre ai resti del tempio Ionico ed al mosaico del Drago, il museo di Monasterace offre anche altri spunti interessanti con la sezione di archeologia degli strumenti e delle arti femminili, denominata “Linea donna” e comprendente statue e teste femminili in terracotta, monili, abiti e contenitori di essenze e gioie.
L’edificio, in comodato d’uso da circa tre decenni per ospitare il Museo archeologico dell’antica Kaulon, è oggi in attesa di poter essere adeguatamente ristrutturato.
“Non finanziati ottocento mila euro richiesti per la messa in sicurezza del parco e del museo di Monasterace, trecento mila euro sono stati già impegnati per il solo museo e adesso, per avviare i lavori, aspettiamo il Comune, oggi commissariato, che deve procedere con altro distinto progetto sempre relativo al museo ancora da finanziare”, ha spiegato Maria Teresa Iannelli che ha sottolineato come il museo sia comunque attivo e con esso il laboratorio di restauro dove sono oggetto di lavorazione numerosi materiali in bronzo (tra cui elmi e specchi) rinvenuti nella necropoli e nell’area sacra dell’antica Kaulon.
Il museo, nonostante le difficoltà, è aperto al pubblico ed alle scuole ed ospita al suo ingresso una delle due esposizioni in Calabria di archeologia subacquea – l’altra è allestita a Capo Colonna- e la pece anticamente trasportata in anfore tramite le navi, ritrovata da alcuni pescatori. Testimonianza del passato di Kaulon, quale zona di traffico commerciale marittimo di notevole interesse, la pece rappresenta un reperto davvero inedito restituito dal mare di cui l’altro ed unico esemplare in Italia è stato rinvenuto in Puglia.
Una ricchezza senza tempo che invoca la lungimiranza delle istituzioni e che continua ad elargire tesori di indiscusso valore nel panorama archeologico della Magna Grecia. Recente è stata la scoperta, annunciata lo scorso 8 ottobre, della tabella bronzea *risalente al V secolo a.C. con lettere incise in alfabeto acheo poste su 18 linee, ordinate regolarmente secondo il sistema di scrittura denominato “stoichedon”. Si tratta di una dedica votiva, sapientemente ricostruita, dopo essere stata ritrovata dai ricercatori dell’università di Pisa e della Scuola Normale che da 15 anni si avvicendano nel parco, ridotta in piccoli frammenti corrosi. Restaurata presso il locale Museo di Monasterace, il reperto si è rivelato il più lungo antico testo acheo mai ritrovato nella Magna Grecia.
Un ringraziamento particolare all’archeologa Maria Teresa Iannelli, funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, per la sapiente e paziente consulenza scientifica