di Anna Foti – Appare così ineluttabile il destino di chi matura la difficile scelta di rompere gli argini, di ribellarsi ad un cielo di cui si fa parte ma nel quale si è stati arbitrariamente posti ai margini oppure si è rimasti esclusi. Come una mina vagante è colei che pone un necessario disordine dove regna un ordine capovolto, da altri stabilito. Se, infatti, è una donna a volere scrivere il proprio destino, madre di figli e figlie per i quali si trova la forza di scardinare per ricostruire e ricominciare, per poi essere vulnerabili e soggette a pressioni, allora questa scelta è ancora più difficile ed è causa ancora più dolore.
Donne che hanno compiuto la coraggiosa scelta di cambiare il proprio destino asfissiante, avvinghiato al malaffare, all’omertà e alla violenza, per scegliere la verità, la luce, la libertà di donne e di madri di figli e figlie con il preciso intento di creare per gli stessi un avvenire diverso, libero. Un coraggio che nasce e muore giovane. E’ la storia di Maria Concetta Cacciola, 31 anni di Rosarno nel reggino, cugina della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, anche lei madre combattuta, la prima di un clan potente come quello dei Pesce di Rosarno. Ma è anche la storia di Tita Buccafusca, 38 anni di Vibo Valentia. Tutte donne che hanno scelto la libertà dalla ndrangheta, la libertà di essere madri e quindi di credere nella giustizia, di scegliere un altro destino, di rischiare tutto per la difesa dei figli piuttosto che per l’appartenenza alla famiglia.
La giornata internazionale contro la Violenza sulle donne ricorre ricordando anche decennale della scomparsa di una di queste donne che con il loro coraggio hanno scritto una storia di speranza per tutti noi. Si tratta di Lea Garofalo, di origini crotonesi ma uccisa nel milanese, madre di Denise.
E’ una storia drammatica ma traboccante di speranza quella scritta da loro, tra la Calabria e la Lombardia. Una storia che, attraversando l’Italia, dimostra che la violenza è trasversale e non conosce zone franche.
Ha testimoniato contro suo padre Carlo Cosco, assassino di sua madre e di lei ha voluto anche il cognome, Denise Garofalo, oggi ventisettenne, residente in località protetta. Affettivamente e inconsapevolmente legata anche ad un complice dell’omicidio della madre, poi pentitosi, Carmine Venturino, il suo destino sarebbe stato quello di vivere nell’oppressione mafiosa se la madre Lea non avesse deciso di testimoniare le circostanze di cui era a conoscenza e dunque di ribellarsi alla ndrangheta.
Lea ha pagato con la sua vita il coraggio delle sue scelte, la ribellione rispetto ad un destino in cui avrebbe dovuto tacere, subire, essere complice, dimenticare di avere assistito alla faida contro il clan dei Mirabelli, nel comune di origine di Petilia Policastro in provincia di Crotone, in cui avevano perso la vita per mano della ndrangheta il fratello Floreano, i cugini Mario, Francesco e Salvatore.
Avrebbe dovuto rinunciare al sogno di un futuro diverso per la sua Denise. Invece il suo amore di madre guidò la sua ribellione e parlò: interrogata dal pubblico ministero Antimafia Salvatore Dolce, riferì del cognato Giuseppe Cosco colpevole di avere ucciso il fratello Floreano e del contesto in cui ciò era avvenuto, ossia l’attività di spaccio di stupefacenti condotta dai fratelli Cosco con il placet del boss Tommaso Ceraudo. Lea disse quello che sapeva e per questo andò incontro ad una morte orribile, consumatasi proprio nel milanese dove venne fatta scomparire il 24 novembre del 2009, perché solo così il suo coraggio di parlare, di scardinare, di “disonorare”, sarebbe stato definitivamente neutralizzato ed annientato.
Nel 2002 a Milano Lea decise di rompere il silenzio su verità scomode, ribellandosi coraggiosamente alla ndrangheta. Con la figlia ancora minorenne Denise, entrò in quel programma di protezione al quale rinunciò nel 2006 per la prima volta e poi definitivamente nel 2009. Forse Lea, madre e testimone di Giustizia, che avrebbe voluto per sé e per la figlia un destino di libertà e legalità distante da quello cui era condannata, si sentì scoraggiata dagli esiti delle sue rivelazioni, cui non seguì alcun processo, nonostante il rischio affrontato. Per questo motivo potrebbe aver deciso di rinunciare al programma di protezione, per avere quella libertà di movimento che avrebbe almeno consentito di costruire per Denise una prospettiva di vita diversa, altrove.
Lea Garofalo aveva, a distanza di sei anni, riferito agli inquirenti dettagli dell’attività criminale di suo marito ed elementi preziosi per far luce sull’omicidio di Antonio Comberiati avvenuto nel 1995 a Milano. Lea raccontò una scomoda verità, poi la confermò e per questo era ‘ricercata’ dal suo ex convivente, che intendeva a tutti i costi conoscere i contenuti delle rivelazioni della ex convivente e della figlia agli inquirenti. Dunque un contesto profondamente rischioso; invece Lea rimase sola con Denise.
Solo qualche mese dopo il tentativo di sequestro fallito a Campobasso, quella partenza per Milano dove, questa volta, il colpo non sarebbe fallito e nel novembre 2009 il rapimento, le torture e poi la atroce morte cui, fino al 2012, pareva non fosse sopravvissuto neppure un corpo. Il silenzio è stato ottenuto. Rimane oggi il solo grande imperativo: proteggere Denise, che adesso vive in una località protetta, per onorare, pur se da morta, la vita di Lea.
Nella notte tra il 24 ed il 25 novembre 2009, infatti, Lea scompariva in corso Sempione a Milano dove, anche in occasione del decennale e nonostante la pioggia, è stata ricordata con un silenzioso corteo di fiaccole: lì era stata attirata con l’inganno, e da quella sera si erano perse le sue tracce. Non sarebbe tornata più in Calabria. Denunciò la scomparsa la sorella Marisa.
Un caso di lupara bianca esportato a Milano per eliminare fisicamente lei, che aveva raccontato agli inquirenti della cruenta faida del suo paese esportata anche nel milanese, che aveva osato sfidare la ndrangheta e l’omertà che il suo codice imponeva.
Nell’ottobre 2010 fu avanzata l’ipotesi del drammatico destino secondo il quale il suo corpo sarebbe stato sciolto nell’acido; nel novembre 2012 seguí il ritrovamento a San Fruttuoso in Monza Brianza di resti umani invece carbonizzati che, si accertò, fossero i suoi. Carmine Venturino, con le sue dichiarazioni, consentì di rinvenire più di 2000 frammenti ossei di Lea.
Solo qualche settimana prima di questo ritrovamento e di questa nuova verità – il suo corpo bruciato e non sciolto nell’acido – la morte di sua madre, Santina Miletta, vedova e sopravvissuta al marito e ai figli di una terra maledetta che paga il sangue con il sangue e che, forse, quella scelta di ‘tradire’ la ndrangheta compiuta dalla figlia non l’aveva mai veramente compresa.
Originaria di Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro nella provincia calabrese di Crotone, Lea, testimone di giustizia, orfana di padre a soli nove mesi di vita per un regolamento di conti e compagna dall’età di 14 anni di Carlo Cosco, tre anni più grande di lei, si era trasferita giovanissima, all’inizio degli anni Novanta, a Milano, dove la sua vita, drammaticamente, fece capolinea. In quell’incontro fissato con l’inganno, naufragò il sogno di ricominciare una nuova vita con la figlia Denise, magari trasferendosi in Australia.
Si era pensato l’avessero sciolta nell’acido perché le sue parole non potessero più rendere verità. ‘Giustiziata’ a 35 anni. Tradita e non solo dal suo ex compagno. Evidentemente a Petilia Policastro, nel crotonese, non era stato tollerato l’affronto di Lea Garofalo, testimone di giustizia che, dissentendo dall’omertà dilagante, aveva creduto nella legge dello Stato più che nella cieca sopraffazione del crimine, pagando con la vita e il distacco dalla sua Denise avuta all’età di 17 anni.
Il 30 marzo 2012, intanto, arrivarono sei condanne all’ergastolo nel processo di primo grado in cui la sorella Marisa si era costituita parte civile. La prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano, presieduta da Anna Introini, aveva condannato infatti i tre fratelli Carlo, Vito e Giuseppe Cosco, Carmine Venturino, Massimo Sabatino e Rosario Curcio per avere sequestrato, seviziato e ucciso Lea Garofalo. Carlo Cosco aveva pianificato l’uccisione della madre di sua figlia, Denise, Lea Garofalo eseguito a Monza il 24 novembre 2009. Nel 2013 la Corte di Appello d’Assise conferma che nessun raptus, ma un orribile piano di morte e violenza, vi era stato alla base del delitto. “Doveva essere cancellata ”dalla faccia della terra” anche ”disperdendone ogni traccia materiale”. Questo era il suo piano e lo ha realizzato con l’aiuto di tre complici, anche loro condannati in primo grado. Un piano compiuto finanche nel dettaglio dei resti, ritrovati tre anni dopo.
Solo allora, dopo ipotesi e dubbi, confermata l’appartenenza a Lea Garofalo dei resti ossei ritrovati nel tombino a San Fruttuoso di Monza, nel milanese, gettati dopo la combustione del corpo durata due giorni, vi fu chiarezza su ciò che avvenne nel 2009. Al pm Marcello Tatangelo, il più giovane degli imputati, Carmine Venturino, nel 2012 aveva rivelato la sua verità: Lea non era stata sciolta nell’acido ma strangolata ed il suo corpo brutalmente colpito e poi bruciato.
Dichiarazioni, tuttavia non ritenute totalmente attendibili. Sulle modalità precise dell’omicidio restano, infatti, sconosciute. Anche questo si legge nelle motivazioni della sentenza della Corte di Assise e di Appello di Milano (presidente Anna Conforti, a latere Fabio Tucci) che nel 2013 ha confermato a carico di Carlo Cosco, ex compagno di Lea Garofalo, la sentenza di ergastolo.
Dei sei ergastoli inflitti in primo grado, confermati solo quattro con una assoluzione ed uno sconto di pena. Confermato il carcere a vita per Carlo Cosco, per uno dei due fratelli di Carlo Cosco, Vito detto Sergio, e per gli altri due complici Massimo Sabatino e Rosario Curcio, mentre ridotta a 25 anni di reclusione la pena per l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino, che pentitosi aveva rivelato dove ritrovare i resti ossei di Lea. Assolto l’altro fratello Cosco, Giuseppe detto Smith.
Tutte le condanne sono state confermate dalla corte di Cassazione nel 2014.
Quella di Lea è una storia che tiene anche aperta una ferita ed apre un dibattito sulla disciplina dei programmi di protezione, sulla loro efficacia, sulla loro gestione.
La giustizia mafiosa, quella macabra ma che meno fallisce e poco sbaglia, ha fatto centro ed è arrivata prima. Ad essere stata condannata è non solo una persona che ha tradito l’omertà mafiosa ma anche una donna che non ha ubbidito, una moglie che ha sottratto la figlia al padre e una donna alla Ndrangheta. Un femminicidio aggravato dalla cappa mafiosa. Una vita in cerca di un legittimo riscatto è stata spezzata; una voce evidentemente libera e veritiera è stata brutalmente zittita.
Adesso resiste ostinata la speranza di una nuova vita per Denise, come si impone la necessità che la Giustizia dello Stato arrivi prima.