di Claudio Cordova
“Il modello organizzativo è profondamente differente dalle altre organizzazioni mafiose: si basa sulla forza dei vincoli familiari e sull’affidabilità garantita da questi legami, un formidabile cemento che unisce e vincola gli ‘ndranghetisti uno all’altro e ne impedisce defezioni e delazioni”. Francesco Forgione definisce così, nella sua relazione, la differenza più evidente che la ‘ndrangheta conserva rispetto alle altre mafie.
Continua il viaggio di strill.it nei gangli della relazione stilata dalla Commissione Parlamentare Antimafia sulla ‘ndrangheta.
Ciò che afferma Forgione nel secondo capitolo della sua relazione, intitolato “Storie” è una peculiarità esclusiva della ‘ndrangheta che ha giocato un ruolo fondamentale negli anni, complicando non poco il compito di contrasto messo in atto da magistrati e forze dell’ordine, dato che fino a non molto tempo fa, a differenza di quanto accaduto, per esempio, in Sicilia, non ci si è potuti avvalere dell’apporto dei collaboratori di giustizia. Rispetto alla Sicilia, la cosiddetta “stagione dei pentiti” in Calabria non è esistita.
Scrive Francesco Forgione: “La ‘ndrangheta ha avuto sicuramente un numero meno rilevante di collaboratori e fra essi nessuno era un capo famiglia. Né ci sono mai stati collaboratori dello spessore criminale di quelli siciliani o campani. La struttura familiare e i suoi codici morali hanno impedito a molti ‘ndranghetisti di parlare. Tra l’altro, il fatto che le ‘ndrine fossero autonome l’una dalle altre ha fatto sì che le poche collaborazioni colpissero la famiglia di appartenenza lasciando intatte le altre, anche le più vicine al loro territorio”.Una tendenza che, come chiarito dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Mario Spagnuolo e dal direttore del Dac della Polizia di Stato, Franco Gratteri, entrambi auditi dalla Commissione Parlamentare Antimafia, negli ultimi anni si è progressivamente invertita. Ancora c’è tanta strada da fare, però. I dati li fornisce lo stesso Forgione: “…dal 1994 al 2007, i collaboratori di giustizia in Calabria, pongono la ‘ndrangheta al terzo posto per collaborazioni dopo la camorra e Cosa nostra. Su un totale complessivo di 794 collaboratori di giustizia solo 100 provengono dalla ‘ndrangheta (il 12,6 %), mentre 243 dalla mafia siciliana, 251 dalla camorra, 85 dalla sacra corona unita, 115 da altre organizzazioni”.
Una ‘ndrangheta impermeabile, dunque. Un’associazione che, come vedremo in una delle prossime puntate, parlando del delitto Fortugno, per dna genera pochi collaboratori di giustizia, pochi pentiti, pochi “infami”.
L’infamia è forse il peccato più grave per il “codice” ‘ndranghetista.
Ma le regole sono fatte per essere infrante, secondo convenienza e l’infamia, se praticata con moderazione, può essere molto redditizia.
E’ notorio il legame esistente tra ‘ndrangheta e massoneria. La ‘ndrangheta, infatti, prima di diventare l’organizzazione più potente al mondo nacque, ovviamente, come un’associazione segreta, sulle orme della massoneria, importata in Calabria nell’Ottocento dai francesi di Gioacchino Murat. Ma il momento decisivo per l’avvicinamento delle due parti, ‘ndrangheta e massoneria, si incastra negli anni ’70 dello scorso secolo. Per esplicarlo Forgione cita uno stralcio della richiesta dei P.M. della Dda di Reggio Calabria, di misura cautelare del 21.12.1994, per intenderci l’operazione Olimpia: “Si tratta dell’ingresso dei vertici della ‘ndrangheta nella massoneria, che non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella ‘cultura’ e nella politica’ della ‘ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, ad un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all’interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all’economia, alle istituzioni…Persino l’attività di confidente, un tempo simbolo dell’infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori”.
Insomma la ‘ndrangheta vuole uscire dall’isolamento perché vuole maneggiare sempre più denaro e per questo è ammissibile anche “chiudere un occhio” sulle regole. Sono proprio queste le basi, i pilastri, che reggono la “Santa”: “Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione…I santisti possono entrare in contatto con politici, amministratori, imprenditori, notai, persino magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, se questo può essere utile per l’aggiustamento dei processi, per lo sviamento delle indagini, per stabilire rapporti sotterranei di confidenza e di reciproco scambio di favori. L’infamia non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare…Per arrivare a questo risultato, tuttavia, i santisti non potevano entrare in contatto “diretto” con gli esponenti delle istituzioni e del potere economico, almeno all’epoca”.
Altri tempi, altra ‘ndrangheta.
2 – continua
Le puntate precedenti:
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