di Giusva Branca – E’ un Paese che non mi piace più.
Una volta non mi piacevano le dinamiche di concezione e gestione dei rapporti pubblico-privato al Sud. Ora non mi piace in tutto il Paese.
Sciascia auspicava, anni fa, una sorta di italianizzazione della Sicilia e del Sud. Bene, è accaduta la meridionalizzazione dell’Italia.
E ciò è accaduto nella parte becera che il Sud (come ogni popolazione) si porta appresso.
E’ saltato, in Italia, il sistema delle regole. Etico-morali prima e normative dopo.
In Italia, come già al Sud da un bel pezzo, è passato il principio che in qualche modo sia tutto possibile; che, insomma, vale tutto, come facevamo da ragazzini alla fine, negli ultimi minuti di un’interminabile partita al pallone.
L’etica è piegata all’interesse, la norma è modellata sull’obiettivo da raggiungere.
E’ un Paese, il nostro, dove, ormai, i ruoli sono stati travolti. E’ un Paese dove i politici fanno gli affaristi, i Giudici fanno politica ed i giornalisti si ergono a Giudici.
E’ un Paese dove ad ogni minima occasione si sceglie di normare non normando. Ampliando, cioè, il margine di discrezionalità a dismisura. E così assistiamo – e non accade solo nelle aule di Tribunale- a due pesi e due misure, ma anche a venti pesi ed altrettante misure.
E’ un Paese nel quale ciascuno fa ciò che vuole.
Chi governa, chi amministra la giustizia, chi opera nei mercati. Somiglia sempre più ad una giungla dove vige solo la legge del più forte, dove chi è in condizione di battere più forte i pugni sul tavolo ha la meglio.
Siamo alle ultime curve organizzative per la prossima edizione – al via tra una ventina di giorni – di “Tabularasa”; è passato solo un anno ma sembra un secolo. E’ tutto maledettamente più difficile, non funziona niente, ma, soprattutto, nessuno crede più a niente. E non è solo una questione di carenza di risorse economiche; è che proprio in tanti, in troppi non ci credono più, non reagiscono, sono proni rispetto a un destino cinico e baro che credono sia caduto loro addosso ma che, invece, proprio il disinteresse collettivo (un tempo figlio di vacua ed edonistica euforia) ha generato.
E la lezione, evidentemente, non è bastata; il disinteresse – stavolta figlio della depressione e del disincanto – dilaga, in plancia alla guida troppo spesso troviamo tanti Schettino ubriachi e mentre prima si ballava nei saloni del Titanic, ora nemmeno più. L’orchestra ha smesso di suonare, i passeggeri sono fermi, immobili, con la testa tra le mani ad attendere ciò che sarà.
Il paradosso? Servito: proprio ora, proprio questo è il momento per reagire, per provare a ribaltare il tavolo, per fare “Tabularasa”. Contro tutto, contro tutti, partendo dal libero pensiero, dalla libera espressione che generi (come già negli anni passati) un mese di aggregazione popolare, trasversale, come nella storia culturale della Calabria non si riscontrano precedenti.
Non c’è da essere ottimisti per il futuro, ma se c’è una via questa passa proprio da “Tabularasa”. Come concetto e, perchè no, nel piccolo, come manifestazione. Anche senza risorse, senza capitali.
Perchè, alla fine, in un Paese che non mi piace più, forse le nozze con i fichi secchi restano la cosa migliore…