Di Anna Foti – “Era un tripudio di festa di bandiere rosse e di canti. Io ero con la mia compagna di staffetta partigiana, Mariolina, e con dei picconi rimuovevano dal manto stradale i simboli del fascio”, questo il ricordo del 25 aprile 1945 di Anna Condò, classe 1928. Lei è stata staffetta partigiana tra il Piemonte e la Liguria, dove era in formazione la terza brigata Garibaldi alla quale aveva deciso di aderire il fratello Ruggero, classe 1924, poi catturato e morto in un campo di concentramento tedesco.
Aveva lasciato Reggio Calabria con la famiglia dopo i bombardamenti degli Alleati e la sospensione dal lavoro dei genitori, non allineatisi alla Repubblica Sociale Italiana, e lì giovanissima aveva aderito alla Resistenza. Subito dopo la guerra fece ritorno in Calabria dove condusse una vita al servizio dei giovani, insegnando loro Italiano, Latino e Greco e testimoniando, come ancora instancabilmente fa oggi nonostante gli affanni e gli acciacchi, i valori di Libertà e Democrazia ai quali ogni sapere è improntato. La sua testimonianza è ancora preziosissima poiché è voce di due Resistenze troppo a lungo colpevolmente taciute: quella delle donne e quella dei calabresi, che in migliaia combatterono e morirono per l’Italia libera.
Il filo della memoria, specie in momenti di prova come quello che stiamo attraversando in questo frangente così particolare, sono necessari per restare aderenti alla Storia. La Storia, a prescindere da ogni apparenza, non ha pause ma solo momenti profondamente diversi, mai slegati tra loro.
25 aprile
Questo 75° anniversario della Liberazione sarà dunque diverso ma non meno sentito. I Valori che esso richiama vanno oltre ogni celebrazione in piazza o presenza fisica. Era il 25 aprile 1945 quando a Milano, sede del comando partigiano dell’Alta Italia, fu diramato l’appello del Comitato nazionale di Liberazione per le insurrezioni partigiane anche di Genova, Torino (http://anpi-lissone.over-blog.com/article-il-proclama-del-clnai-del-25-aprile-1945-80138748.html); esse precedettero la resa dell’esercito nazifascista e la liberazione dell’Italia. Benito Mussolini, capo del governo della Repubblica Sociale, finì la sua fuga e trovò la morte, tre giorni dopo, fucilato in provincia di Como.
Libertà, Democrazia, Futuro furono ideali vivi nel cuore dei combattenti della Resistenza italiana, degli uomini e delle donne, anche meridionali, che si opposero al nazifascismo per dare un’occasione di riscatto all’Italia tutta, per restituire alla Libertà la consistenza di un’esistenza senza padroni e dunque ‘liberata’ dagli oppressori.
Quella della Resistenza era l’Italia divenuta, dopo la firma dell’armistizio di Cassibile in Sicilia (8 settembre 1943), stato satellite della Germania. In quei giorni si alimentarono i germi della nuova occupazione – la Repubblica Sociale Italiana nota anche come Repubblica di Salò (Brescia) era stata proclamata il 18 settembre 1943 – ma furono interrati anche i semi della speranza e del riscatto – il Comitato nazionale di Liberazione era nato il giorno dopo l’armistizio, il 9 settembre 1943 a Roma. La fine della Seconda guerra mondiale segnava in Italia l’inizio di un’altra guerra.
Le Storie di Giuseppina e di Teresa e la Testimonianza di Anna
Ad oggi la memoria è uno strumento utile non solo per conoscere ciò che è stato ma anche e soprattutto per comprendere quanto ancora ci sia da fare. Ogni testimonianza è preziosa perché le testimoni non devono sfidare solo il pregiudizio ma anche il tempo che passa.
È necessario raccontare anche e soprattutto per chi non può più farlo come Eletta Bigi, nome di battaglia Sonia, spentasi lo scorso marzo a Campegine, a quasi 95 anni, nella casa di riposo che la ospitava da un anno. Era l’ultima voce vivente della celebre Pastasciutta del 25 luglio 1943, organizzata dalla famiglia Cervi nella campagna reggiana dopo la memorabile seduta del Gran consiglio del Fascismo che decretò la caduta del regime.
In Italia, ma anche in Calabria, la storia delle Partigiane calabresi è stata poco raccontata. Poco si sa, tra le altre, di Anna Cinanni e Nina Tallarico. Tra chi fece Resistenza anche tre reggine alle quali diamo del tu perché le sentiamo vicine, perché le vogliamo ancora accanto in qualunque modo sia possibile, perché dimostriamo così la nostra infinita gratitudine. Tre donne lontane da casa che, negli anni in cui si rese necessario, fecero la loro resistenza o supportarono quella armata.
Anna
Anna Condò, staffetta partigiana nata a Reggio Calabria, dove ha fatto ritorno dopo la Guerra e dove oggi vive. Costretta a emigrare al Nord dove sposò la causa di Libertà con il fratello Ruggero, classe 1924, unico maschio di cinque figli, ricorda bene quella sera in cui egli scelse la Montagna e la lotta Partigiana. Anna ricorda bene le parole del fratello quando le disse di non volersi piegare al bando Almirante che imponeva ad antifascisti e partigiani, definiti “sbandati”, l’autodenuncia presso i posti di polizia italiana e tedesca per l’arruolamento nell’esercito della Repubblica di Salò, pena la fucilazione di schiena. Ruggero le confidò la sua scelta e le comunicò che dopo qualche giorno si sarebbe rifugiato in montagna. “Sento ancora, come se fosse adesso, coagularsi anche in me quello stesso desiderio di libertà e giustizia che stavano spingendo mio fratello Ruggero a scegliere la montagna, e dunque la guerra partigiana, al punto che gli dissi di volere andare con lui. Lui mi tirò le trecce, invitandomi al riserbo assoluto e, aprendomi un mondo, mi disse che avrei potuto dare il mio contributo anche restando a casa. Così fu. Io frequentavo una sarta, per imparare a cucire, e una compagna di scuola per studiare. Questo scandiva le mie giornate di ragazzina e quelle erano anche occasioni per spostarmi e portare messaggi di cui non conoscevo il contenuto”, ricorda Anna.
“Io rifarei tutto anche adesso e ringrazierò sempre mio fratello Ruggero, uomo buono e coraggioso, per avere confidato a me, sorella minore, adolescente ma molto agguerrita e determinata, la sua scelta e di avermi fatto capire che quello era in realtà per tutti il momento di scegliere”.
Tra i dolori che hanno scandito la vita di Anna Condò è ancora vivo quello della perdita del fratello Ruggero, scampato alla strage della Benedicta, sull’Appennino Ligure nell’aprile del 1944, ma catturato, torturato e deportato poco dopo in un campo di concentramento tedesco dal quale non fece più ritorno. “Ho ancora nelle orecchie quel rumore dei passi sui sassi dei militari e la nostra vita sospesa in un silenzio fatto di attesa. Un’attesa – racconta Anna – inizialmente esaudita da un biglietto gettato da un convoglio in transito sul quale si riusciva ad avere qualche pezzetto di carta per scrivere due righe ai familiari. Ruggero ci aveva scritto di essere ancora vivo. Poi iniziò un’altra attesa con un esito purtroppo diverso. Ero iscritta al partito dei Giovani Comunisti e così rientrando a Reggio Calabria mi ero fermata a Roma, alla sede centrale del Partito, per chiedere informazioni. Questa volta l’attesa fu infranta, seppure da un gesto bellissimo che mai dimenticheremo. Manuel, sopravvissuto ai campi, prima di rientrare in Spagna, volle venire personalmente a Reggio Calabria per rintracciarci e manifestare la sua immensa stima per Ruggero. Volle farlo – prosegue Anna – anche se ciò significò doverci comunicare che era stato ucciso dopo grandi sofferenze, torture e lavori forzati che gli avevano anche causato una grave ferita al piede. Ruggero non cedette mai e rimase fermo nella sua volontà di battersi per la Libertà. Questo Manuel volle venire a dircelo di persona fino a Reggio Calabria. Questa è la nostra Storia ma il punto è proprio questo: questa storia non è solo la nostra. Questi sono i fatti ma lo spessore di quanto realmente avvenne, pare non emergere mai pienamente nonostante i racconti e le testimonianze. I ricordi – sottolinea Anna – riescono a diventare messaggio solo se portano con essi la carica delle emozioni, dei valori, degli ideali e dei principi che furono alla base della Resistenza, che ispirarono i Partigiani nella loro lotta per la nostra Libertà, riuscendo a tradurne l’urgenza di affermazione in ogni luogo e in ogni tempo. Ciò che raccontiamo oggi, continua ad avere un tessuto alimentato da emozioni del cuore e della mente, rimaste sempre vive, operanti e attive come quegli ideali. Ma tutto sarà vano – incalza Anna – se ciò varrà solo per noi che lo abbiamo vissuto, se non dovessimo riuscire a rendere quei valori mai soltanto passati e invece sempre attuali. Chi ha il privilegio di stare vicino ai giovani ha il dovere di tradurre questi ricordi in un presente di coscienza e responsabilità. Non solo memoria ma anche stimolo, incoraggiamento – si augura Anna – perché la Libertà va conquistata e difesa ogni giorno e mai data per scontata. Perché la Democrazia si costruisce giorno dopo giorno e va protetta dal pericolo dell’ignoranza e dell’indifferenza, della smemoratezza e del disimpegno”.
Teresa
Una madre in tempo di guerra, una moglie durante l’occupazione nazista: considerata il simbolo della Resistenza romana, Teresa Talotta Gullace, cittanovese di origine, fu una donna che visse per la sua famiglia con coraggio, ogni giorno, anche quel 3 marzo 1944.
Vicolo del Vicario numero 14, Roma: qui abitava Teresa. Con dignità sfidava quotidianamente stenti e soprusi e con generosità si dedicava ai suoi cari. Lo ha fatto fino alla morte inferta dai nazisti appunto quel 3 marzo 1944. Contro di lei, disarmata e incinta, i militari stranieri aprirono il fuoco mentre inseguiva il marito Girolamo, strappato alla sua casa e alla sua famiglia. Tutto si consumò davanti alla caserma dell’81º reggimento di fanteria in viale Giulio Cesare, a Roma, dove oggi una targa ricorda quella drammatica giornata. Non aveva ancora compiuto 37 anni ed era al settimo mese di gravidanza, Teresa. Attendeva il sesto figlio. Quella fu una pagina drammatica della storia di violenza che il popolo Italiano conobbe e subì in terra propria e nell’ambito della quale Teresa Gullace incarnò – nel film “Roma città aperta”, capolavoro del Neorealismo italiano, che Roberto Rossellini girò nel 1945 il personaggio di Sora Pina, interpretata dall’indimenticata Anna Magnani, pare sia stato ispirato proprio a Teresa – la Resistenza opposta non solo dai Partigiani in battaglia ma anche dalle persone comuni, come lei, che non si tirarono mai indietro al momento di sfidare le ingiustizie e le angherie dei nazisti.
Giuseppina
Operaia nello jutificio Montecatini, anche lei attivista antifascista e partigiana nella brigata “Gramsci”, profuse un importante impegno politico-sindacale a La Spezia, in Liguria, dove era emigrata con il marito Marco Perpiglia, volontario in Spagna e partigiano con il nome di battaglia Pietro. Fu protagonista della Resistenza condotta anche nelle fabbriche, attraverso scioperi e proteste. Fu anche arrestata con le altre due attiviste Elvira e Dora Fidolfi, e detenuta per 12 giorni. Dopo la Liberazione tornò nella sua Roccaforte del Greco, nel profondo Sud Italia, con l’amato Pietro. Qui morì nel 1991. Il marito l’aveva già preceduta con un gesto estremo compiuto nel 1983. Tornarono in Calabria con l’animo straziato dalla perdita degli figlio in un incidente stradale nel 1943. Nel 2018 l’aula consiliare del Comune di Roccaforte del Greci è stata intitolata alla sua memoria.
La sua storia è stata ricostruita ne “La Spiga di grano e sole. Marco Perpiglia, il partigiano Pietro, e la moglie partigiana Giuseppina Russo. Una vita per la Libertà”, (Edizioni Caruso 2018) di Carmelo Azzarà, nipote di Pietro Perpiglia, e nel saggio “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana” (Edizioni Cinque terra 2017), di Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello.
Donne, Resistenza immediata e Memoria indifferente
La storia della Resistenza è anche parte integrante della storia delle donne e la storia delle donne della Resistenza è pure parte integrante della storia della nostra Italia libera. Una storia intensa di impegno, sacrificio e tenacia, ancora troppo poco conosciuta, che conferì alla Resistenza anche una importante dimensione di impegno civile e che tuttavia, come spiegò Ada Gobetti nel suo Diario Partigiano, pubblicato da Einaudi solo nel 1956, restava un “fenomeno collettivo ma anonimo”. Non è affatto superfluo sottolineare questo contributo – fronteggiando anche il rischio che ciò possa essere ritenuto meramente retorico – in occasione dell’anniversario della Liberazione che incarna i valori che animarono tanti Italiani e tante Italiane alla quali dobbiamo la nostra Democrazia, una Democrazia in cui ancora oggi la Parità e l’Uguaglianza nel rispetto delle Diversità di genere non è patrimonio concreto e colonna portante della nostra quotidianità.
Molte furono le donne torturate e fucilate per non avere tradito le formazioni partigiane. Il ruolo conquistato sul campo durante la Resistenza dalle donne non poté certamente essere ignorato. Tuttavia la società italiana non fu per nulla pronta a far germogliare quel seme di cambiamento interrato durante la Resistenza. Per la Donna, l’immediato Secondo Dopoguerra generò solo il diritto al Voto che si tradusse comunque in un’esigua rappresentanza* che, per quanto rafforzata, ancora non incarna una situazione di parità ed equilibrio. La storia delle donne nella Resistenza restò, infatti, in parte in ombra anche per la riluttanza della società dell’epoca verso il riconoscimento di un ruolo di effettiva parità e di una dimensione pubblica della donna: le ragioni erano anche, evidentemente, culturali. Rileva anche il contesto politico generale del Secondo Dopoguerra in chiave di lettura e percezione del fenomeno della Resistenza del suo insieme. Decaduto definitivamente il Fascismo, altri scenari politici e culturali subentrarono nell’Italia liberata dagli Alleati che ne influenzarono il ruolo nella scacchiera della Guerra Fredda, con ripercussioni profonde sulla politica interna. L’Italia liberata e poi ed un anno dopo repubblicana, dotatasi poi di una Costituzione, fu prodromo dell’Italia Centrista impegnata a tenere fede al dovere di estromissione delle Sinistre dal Governo. Neppure tre anni erano trascorsi dal 25 aprile 1945 e l’Italia, pur non dimenticando la Resistenza, guardava al futuro in cui avrebbe dovuto rivestire un ruolo in un contesto politico segnato dalla divisione tra Blocco Occidentale e Blocco Comunista.
L’Udi e la memoria da recuperare
Un contributo al riscatto alla memoria della Resistenza Femminile fu reso dall’Udi, Unione Donne Italiane, associazione femminile di promozione politica, sociale e culturale, senza fini di lucro, costituitasi formalmente nel 1945 ma nata durante la Resistenza. In essa confluirono i Gruppi di difesa della donna, sodalizio di primo piano nella storia dell’emancipazione femminile in Italia. Grazie all’Udi molte donne, non tutte, raccontarono la loro esperienza di partigiane e in quella Storia così importante, dopo la quale l’Italia cambiò per sempre, furono inserite anche pagine con i nomi e volti delle migliaia di donne combattenti. La guerra della Resistenza per la Liberazione fu assolutamente particolare: non vi furono distinzioni di genere, non vi furono gerarchie. Ognuno diede il suo contributo. Una lotta profondamente unita perché ispirata alla Libertà.
Si parla di trentacinque mila – numero certamente sottostimato – donne combattenti, portaordini, informatrici, infermiere. Quelle che fecero resistenza anche civile furono settantamila. La lotta delle donne per il pane e per la pace non era soltanto per la sopravvivenza quotidiana ma era sempre stata anche politica. E poi divenne anche armata dentro la Resistenza.
In tante, già tornate dove gli uomini e la società si aspettavano che stessero, cioè a casa, non si dichiararono mai. Come se quel contributo fosse stato ‘concesso’ alle donne per la straordinarietà di quella guerra irregolare contro gli occupanti stranieri, i tedeschi, e i nemici italiani, i fascisti.
Eppure la loro Resistenza iniziò subito. Già dopo l’8 settembre 1943 le donne per prime si opposero all’arresto dei mariti, quando scesero in strada per difendere le loro città.
Celebri e coraggiosi furono i film Roma Città Aperta (Roberto Rossellini, 1945) e Le Quattro giornate di Napoli – 27 – 30 settembre 1943 – (Nanni Loy 1962), che prima della Storia e degli Storici documentarono questa importante e decisiva forma di Resistenza Civile delle donne. Le prime a raccontare furono Renata Viganò con “L’Agnese va a morire” (Einaudi 1949) e Alba De Cespedes con “Dalla parte di lei” (Mondadori 1949). Dei temi emergenti dell’emancipazione scrissero e parlarono Natalia Ginzburg, Fausta Cialenti, Anna Banti, Maria Bellonci, Sibilla Aleramo, Paola Masino. La narrazione delle combattenti ebbe nuova risonanza anni dopo con le testimonianze, per molti versi più lontane da stereotipi, di Anna Garofalo, che durante la Resistenza condusse una coraggiosa militanza antifascista in radio (come fecero anche Fausta Cialente e Alba De Cespedes) e pubblicò con Laterza “L’italiana in Italia”, nel 1956. Elsa Oliva scrisse il suo diario intitolato “Ragazza Partigiana” nel 1946 ma con i caratteri de La nuova Italia fu pubblicato soltanto nel 1974. (https://www.raiplay.it/video/2018/11/Passato-e-Presente-La-Resistenza-e-le-donne-4f505595-1a01-4ba4-8244-6835f908f1fd.html – https://www.raiplay.it/video/2019/04/Passato-e-Presente-Le-scrittrici-della-Resistenza-9f828dc2-f346-4536-9b88-21cdf2ced8bc.html).
Due anni dopo, nel 1976 fu pubblicato il volume intitolato “La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi” di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina (Bollati Boringhieri) e nel 2018 vide la luce il saggio “Parole Armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra resistenza ed emancipazione” (La Tartaruga) di Valeria P. Babini. Ancora quella storia va raccontata e non solo per mantenere viva la memoria ma anche per alimentare la conoscenza della nostra Storia.
Una necessità che molto rivela circa il ritardo che ancora attanaglia il raggiungimento di molti traguardi di uguaglianza effettiva in Italia.
“Ricordiamoci che la storia la raccontano sempre i vincitori. Ed è quella che rimane a testimonianza del passato. Vogliamo farci anche noi narratrici della nostra storia, per ricordare che oltre ai molti coraggiosi e valenti uomini italiani, ci sono state tante donne che hanno contribuito profondamente ai migliori cambiamenti del nostro Paese”, ha scritto Dacia Maraini soltanto quattro anni fa nella prefazione al volume collettivo “Donne della Repubblica” (Il Mulino).
Una storia da leggere e un presente da scrivere
Pagine bellissime di impegno corale e di lotta unitaria che tuttavia riuscirono a determinare nell’immediatezza la conquista del solo diritto politico del voto, non riuscendo a incidere sulle altre sfere sociali ed economiche della società. Esaltarne il ruolo, tuttavia riconosciuto, avrebbe significato accogliere anche il loro legittimo desiderio di avere un ruolo pubblico dopo la Liberazione. Aspirazione invece criticata, che si scontrò con la società impreparata a quel salto culturale, ancorché pienamente meritato. Si fece strada la memoria delle cadute ma per la sopravvissute il giudizio sociale generale non fu clemente. Lo stesso diritto al voto produsse poche donne elette. Un dato che denunciava con forza un cammino ancora lungo verso la dimensione piena della donna, nel privato quanto nel pubblico, e verso il riconoscimento di una sua completa capacità di autodeterminazione.
Nel 1946 solo ventuno furono le donne elette all’Assemblea Costituente* (nessuna calabrese): Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filomena Delli Castelli, Maria Federici, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela Maria Guidi Cingolani, Leonilde Iotti (componente della Commissione dei 75 che lavorò alla proposta del progetto di Costituzione e prima presidente della Camera dei Deputati della storia Repubblicana 1979-1992),Teresa Mattei, Angelina Livia Merlin, Angiola Minella, Rita Montagnana Togliatti, Maria Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio. Tra loro molte erano state partigiane (Laura Bianchini, Maria Federici, Angela Gotelli, Teresa Mattei, Angola Minella, Teresa Noce). Dal 1 gennaio 1948 la Costituzione definì il quadro distinguendo solo per età, e non più per il genere, l’elettorato per i due rami del Parlamento: elettorato attivo per tutti i cittadini e le cittadine maggiorenni (21 anni fino al 10 marzo 1975 quando nell’ambito della riforma del diritto di famiglia fu varata anche la legge numero 39 che ancora oggi fissa il conseguimento dell’età maggiorenne utile per l’acquisizione della capacità di agire a 18 anni) ed elettorato passivo alla Camera dei Deputati ai 21 anni (poi 18 anni) e al Senato per tutti i cittadini e le cittadine con età superiore ai 25 anni.
Su 556 componenti dell’Assemblea Costituente, le donne elette furono solo 21 pari a poco più del 3%), mentre in occasione del primo Parlamento della Repubblica, eletto il 18 aprile 1948 le donne elette raggiunsero appena la soglia del 5%. Appena 49 su quasi mille parlamentari. Tra loro Nilde Iotti, futura prima presidente della Camera eletta nel 1979, Lina Merlin, promotrice dell’omonima legge sulla Prostituzione, e Angela Maria Cingolani Guidi, prima sottosegretaria di Stato, nominata nel 1951 per il Ministero dell’industria e del commercio del VII Governo De Gasperi.
La storia che seguì è nota come l’attualità che ancora impone innumerevoli e indifferibili sfide per la nostra società tutta: la libertà della donna dal dovere di scegliere tra il lavoro e la famiglia, il pieno riconoscimento dei suoi diritti e dei suoi meriti al pari dell’uomo, la tutela di valori come l’integrità, l’incolumità e addirittura la vita dentro la propria casa, l’eliminazione del tribunale informale (a volte non solo informale!), spesso frequentato anche da familiari, amici e colleghi, che impone alla donna di giustificare l’abbigliamento e il comportamento quando viene stuprata oppure di affannarsi a dimostrare intelligenza e capacità, per non apparire solo bella o per non apparire totalmente insignificante. I pregiudizi più latenti sono quelli più radicati che si fa fatica anche a riconoscere e ad ammettere. Ma essi esistono, senza negare che esistono anche tanti uomini e tante donne, oggi già maturi, consapevoli, responsabili ed impegnati in queste sfide ancora aperte.
La società italiana del Dopoguerra non fu, dunque, assolutamente pronta per una piena Uguaglianza e per una completa Parità tra donna e uomo, ma non lo è neppure quella attuale. Ancora oggi, in una misura tutt’altro che intrascurabile, il percorso è avviato ma ancora incompiuto. Ricordare, ogni 25 aprile e ogni giorno, che quando siamo stati uniti, abbiamo vinto tutti, credo sia più che mai vitale e necessario.