di Grazia Candido – La felicità è un percorso, non una destinazione e per raggiungerla bisogna camminare insieme. Lo sa bene il “traghettatore” Flavio Insinna pronto a calcare il palco del teatro “Francesco Cilea” sabato 11 Gennaio alle ore 21 con la pièce “La macchina della felicità – Ricreazione”. L’amato attore e conduttore televisivo con la sua piccola orchestra, riapre la kermesse dell’Officina dell’Arte, primo appuntamento dell’anno, per festeggiare la vita, l’amicizia, la famiglia, le tradizioni, con il sorriso ma sempre con lo sguardo innamorato.
La sua è una “sfida” teatrale ma anche un viaggio ricco di umanità che sceglie di condividere con il suo pubblico. Prima di vederlo nella massima culla dell’arte reggina, lo abbiamo contattato telefonicamente e, sono bastati tredici minuti, per apprezzare lo spessore culturale di un uomo geniale capace di mostrare la profondità della vita in modo semplice.
In questi tempi abbiamo bisogno tutti di un po’ di felicità. Cosa è la felicità per lei?
“La mia famiglia e il mio pubblico. Negli anni, ho accumulato molti messaggi e a Roma ho un armadio con dentro tanti biglietti di persone che, all’inizio dello spettacolo, scrivono la propria idea di felicità e io ne prendo un po’ e li leggo a teatro. In alcuni messaggi, prevale il sentimento di amore, di affetto per la famiglia e per le persone che ami. In un mondo così faticoso, difficile non possiamo non pensare alla felicità di chi è più sfortunato di noi. Io ho una vita e una carriera strafortunata e penso a chi ha meno di me: la felicità va condivisa. Se sei felice solo tu e gli altri accanto a te non lo sono è come se stai ad una festa, spegni le candeline, apri i regali, tu sei felice mentre gli altri stanno seduti annoiandosi a morte. La vita è condivisione”.
Il suo è uno spettacolo ricco di comicità, racconti e canzoni intrecciato alla trama dell’omonimo romanzo da lei scritto. Ci sveli qualcosa anche perché in questo viaggio non sarà da solo sul palco.
“Con me, ci sono sempre i miei musicisti che, da anni, vengono in giro su e giù per l’Italia perché la musica può salvare le nostre giornate, può scacciare la tristezza, la può alleggerire, ci porta ricordi, ci fa cantare insieme, battere il tempo. La musica è fondamentale nella mia vita e penso lo sia anche in scena, in radio, in televisione. Ho sempre cercato di portarmi la musica dal vivo ovunque perché unisce, è un linguaggio che ti mette allegria, alla quale leghiamo un ricordo della vita. La musica ci salva e salva anche me sul palco e le persone, alla fine dello spettacolo, non vogliono andare via ma voglio continuare a giocare con noi. Insomma, la nostra è una festa, non uno spettacolo”.
In questa pièce, felicità e amore dei due protagonisti Laura e Vittorio camminano a braccetto. Possiamo dire che prenderà per mano il suo pubblico per fare insieme questo cammino alla ricerca della felicità?
“La festa va fatta insieme e, in certi momenti, sembra che loro prendano per mano noi. Non c’è quasi niente di predefinito, stampato, assoluto, così come nelle feste, si va insieme e si affrontano i cambiamenti. Un po’ li prendo per mano io e un po’ mi prendono per mano loro. Lo scambio è questo e il teatro fa tale miracolo: si sta e si respira tutti insieme, è un incontro tra anime senza sottovalutare il rischio di salire sul palco e non sapere come andrà. Però, in quelle due ore, ce la mettiamo tutta per cercare quantomeno di mandare a casa gli spettatori più leggeri rispetto a quando sono arrivati. Mi piace l’immagine di prendersi per mano perché inizia sempre così con i biglietti che hanno scritto le persone che sono venuti e poi, andiamo tutti verso la stessa direzione, cercando di divertirci, emozionarci. La felicità va condivisa è come quando racconti una poesia: se me la racconti mi hai arricchito e non ti sei impoverito perché adesso la sappiamo entrambi. E se il pubblico andrà via un po’ più felice, sarò contento. Si fa in fretta a dire la felicità è nelle piccole cose ma chi lo può stabilire quanto sia piccola quella cosa? Io non vado ad insegnare niente a nessuno, vado in giro per l’Italia per imparare a conoscere le persone e, ogni volta, imparo che certe cose apparentemente scontate in realtà sono apprezzate, vissute, respirate, amate sino a che ce le abbiamo perché arriva un giorno in cui si rischia di rimpiangere quei momenti. Accorgiamoci prima di ciò che abbiamo. Per esempio, la tavolata della domenica con i nonni va apprezzata mentre succede e non quando non la si ha più”.
Ogni serata è uno spettacolo unico perché in ogni posto dove andate lasciate qualcosa di irripetibile, esclusivo.
“Assolutamente sì. Sul palco, abbiamo un telefono, io dò il numero, chi vuole può scrive un WhatsApp e noi non sappiamo chi scrive, non abbiamo alcun numero memorizzato. In tempo reale, leggiamo il pensiero, il ricordo dello spettatore e in quel pentolone della felicità, raccogliamo momenti unici della serata. Ogni sera è unica, è dedicata a chi viene a giocare con noi”.
Televisione, teatro, cinema. C’è un sogno che ancora deve realizzare?
“Custodire l’entusiasmo che ho sin da bambino. Sono un uomo fortunato e spero di continuare a lavorare con la stessa passione, entusiasmo e voglia di fare sempre meglio, di avere la curiosità che, guarda caso, fa rima con felicità. Se sei curioso delle persone con cui lavori, dei concorrenti con cui giochi, delle persone che vengono a vederti a teatro devi custodire questa curiosità. Non è un sogno ma una speranza. Continuare a giocare con la stessa voglia cercando di divertirmi soprattutto, di far divertire e non fare mai le cose meccanicamente. Questa è la mia sfida. Ho un mio diario di bordo e, man mano che cambiamo la città, scrivo ciò che è successo. E’ vita, è la mia vita”.
L’Officina dell’Arte è una compagnia che pian piano e, soprattutto, con le proprie forze è riuscita a creare una kermesse prestigiosa seguitissima. Vuole dire qualcosa a questi “menestrelli” che hanno creduto in un grande sogno e, finalmente, lo hanno realizzato?
“Oggi, purtroppo, teatri, cinema, librerie rischiano di chiudere e ci vogliono persone che credono in queste realtà. Ho scelto di fare questo mestiere dal 1986, sono 34 anni ormai, e vi assicuro che è sempre un’emozione. Quando chiude un luogo di cultura mi avvilisco non tanto per me ma per i giovani che si volevano avvicinare a queste realtà. Spero di incontrare i sognatori dell’Officina dell’Arte per complimentarmi e ringraziarli del coraggio di tenere in piedi una attività così bella come la loro. Fare ciò è da super eroi, questi sono dei veri super eroi senza il mantello, degli avengers. Crederci è riuscire a farlo”.