di Claudio Cordova – Non sono bastate le dichiarazioni spontanee, rese alla fine delle arringhe difensive, a Nino Iamonte (nella foto) per evitare una severa condanna inflitta dal Tribunale di Reggio Calabria, dopo quasi undici ore di camera di consiglio, nell’ambito del processo “Ramo spezzato”.
Iamonte si era detto consapevole del proprio cognome, ma aveva affermato la propria innocenza.
Nino Iamonte è stato condannato alla pena di 16 anni di reclusione e al pagamento di 3400 euro. Sono invece 10 gli anni di reclusione inflitti a Carmelo Iamonte, mentre Sergio Borruto ha rimediato una condanna a 12 anni e 6 mesi di reclusione. Per il medico Franco Cassano, il Tribunale ha comminato una pena di nove anni. Condanna a 6 anni di reclusione, invece, per Domenico Tomasello, Agata Gurnale, Giuseppe Sergi, Pietro Benedetto e Angela Maria Ginesio. Pietro Rodà, invece, è stato condannato a 5 anni di reclusione, mentre Filippo Antonio Mafrici a 4 anni e 6 mesi. Giuseppe Scieuzo se l’è cavata con 4 anni e Vincenzo Cosmano con 3 anni e 6 mesi. Assolti, invece, Vincenza Tomasello, Salvatore Spinella, Giuseppe Guerrera e Pasquale Iamonte: per gli ultimi due era stato lo stesso pubblico ministero a chiedere l’assoluzione.
Il blitz della Polizia di Stato scatta nei primi giorni del febbraio 2007. Il Gip Santo Melidona, su richiesta dei pubblici ministeri Santi Cutroneo e Antonio De Bernardo dispone l’arresto di quindici persone, che, a vario titolo, sarebbero legate al clan Iamonte di Melito Porto Salvo.
L’operazione “Ramo spezzato” viene condotta dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria (ancora sotto il comando di Salvatore Arena) con il fondamentale supporto del Commissariato di Condofuri, retto da Giuseppe Pizzonia che, invece, aveva avviato le indagini sulla cosca Iamonte, una famiglia di macellai che, negli anni, grazie anche agli investimenti industriali, spesso fallimentari, operati sulla costa ionica reggina (la Liquichimica in particolare) diviene una delle consorterie più potenti della ‘ndrangheta.
Un settore, quello della macellazione, nel quale la cosca Iamonte da sempre regna sovrana: “E’ emerso, dalle sin qui esplorate attività criminose, – si legge nell’ordinanza “Ramo spezzato” – come uno dei settori di interesse più significativo della organizzazione indagata sia costituto dal commercio delle carni, realizzato anche mediante l’acquisizione con sistemi estorsivi di macellerie e la fraudolenta intestazione a terzi della formale titolarità delle medesime (per l’evidente finalità di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale)”.
L’indagine, quindi, riguarda le attività di un’organizzazione, facente capo alla cosca Iamonte, dedita alla macellazione clandestina. Dalle intercettazioni telefoniche, parte assai rilevante nel procedimento, era emerso che il mercato delle carni nella zona del Basso Jonio fosse nelle mani di alcune macellerie che facevano capo a Antonino Iamonte. A Condofuri, secondo le indagini svolte dalla Polizia di Stato, era anche presente un mattatoio che veniva utilizzato per la macellazione clandestina.
Nell’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal Gip Santo Melidona, tale attività di commercializzazione viene definita un “inquietante traffico di animali destinati alla macellazione e di carni destinate al consumo umano al di fuori di un’ogni controllo, previa formazione di documentazioni sanitarie false, in alcuni casi di animali affetti da gravi malattie, con potenzialità di gravissimo ed incontrollato pregiudizio per la salute dei consumatori”.
Il meccanismo, descritto nell’ordinanza, sarebbe il seguente: “gli animali sono malati e vengono trasportati insieme ad un esemplare deceduto; il bestiame non è stato sottoposto ad alcun controllo ed infatti non è accompagnato dalla documentazione attestante l’avvenuta sottoposizione ai prescritti controlli sanitari (cedolino o “passaporto”), che pure gli indagati cercano, fino all’ultimo momento, di reperire, senza riuscirvi. E’ chiaro che gli indagati sono ben consapevoli delle condizioni in cui si trovano gli animali e, quindi, della pericolosità delle loro carni”.
Tra gli individui arrestati anche Carmelo Iamonte, figlio del noto boss Natale, ritenuto dagli inquirenti il capo indiscusso della cosca. In manette anche un medico, Franco Cassano, che, secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo poco nitido sulle certificazioni rilasciate sugli animali, molti dei quali malati, che poi erano destinati alla macellazione e al commercio. L’inchiesta ha anche messo in luce le attività estorsive messe in atto dalla cosca, che avrebbe costretto piccoli proprietari terrieri ed esercenti commerciali a cedere le loro attività dopo danneggiamenti ai loro danni.
Il caso più eclatante è quello di Saverio Foti, l’imprenditore che poi, divenuto testimone di giustizia nell’ottobre 2007, ha messo sotto accusa la famiglia Iamonte. Il dibattimento del processo “Ramo spezzato”, infatti, ha registrato anche un duro e infuocato confronto tra Nino Iamonte e Foti, il quale aveva riferito che nel territorio di Melito le attività collegate alla macellazione erano gestite da Iamonte e Sergio Borruto, sua diretta espressione.
Tra le dichiarazioni di Foti, poi utilizzate anche nell’inchiesta “Leone”, anche una serie di circostanze riguardante i permessi di soggiorni fasulli per alcuni cittadini di nazionalità indiana da sfruttare sul mercato del lavoro nero.
Novantaquattro anni e sei mesi di carcere inflitti, a fronte dei 143 richiesti dall’accusa. Ha retto, quindi, l’impianto accusatorio messo in piedi dal pubblico ministero Antonio De Bernardo: al testimone di giustizia Saverio Foti, peraltro, il Tribunale (Pedone presidente, Ferraro e Vicedomini a latere) ha riconosciuto un risarcimento di 5mila euro. Il collegio ha infine disposto la confisca della società Tomidà srl e delle ditte individuali “Sergi Giuseppe “ e “Ginesio Angela Maria”.
Queste le richieste di pena più dure formulate, l’11 giugno scorso dal pubblico ministero Antonio De Bernardo: Antonino Iamonte, 20 anni di reclusione e 9 mila euro di multa, Carmelo Iamonte, 16 anni e 3 mila euro, Sergio Borruto, 16 anni e 12 mila euro, Domenico Tomasello, 14 anni e 10 mila euro, e per il medico Francesco Cassano, 12 anni e 10 mila euro. La condanna a 10 anni di reclusione ciascuno era stata chiesta per Giuseppe Scieuzo, Pietro Rodà e Antonio Filippo Mafrici, a 9 anni e 9 mila euro per Agata Gurnale, a 5 anni ciascuno per Giuseppe Sergi, Pietro Benedetto, Angela Maria Ginesio e Salvatore Spinella, a 4 anni per Vincenza Tomasello, a 2 anni e 2 mesi per Vincenzo Cosmano.
Per Giuseppe Guerrera e Pasquale Iamonte, De Bernardo, infine, aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Il pubblico ministero aveva ripercorso l’inchiesta del commissariato di Condofuri, analizzando le singole posizioni processuali, arrivando poi alla richiesta delle pene detentive e pecuniarie.