Sabato 30 aprile scorso “Impronte e ombre” ha fatto tappa a Rosarno. È una bellissima giornata di sole, mezzogiorno è passato da poco,e la porta della casa di Peppe Valarioti è aperta.
Ad attenderci ci sono letre sorelle di Peppe e due nipoti. Solitamente si ritrovano in questa casa ogni domenica a pranzo. Per noi hanno fatto un’eccezione. Ma verranno qui anche domani per rispettare la tradizione.
Ci accolgono con affetto, ricordano ancora quando tanti studenti di Taurianova trascorsero una giornata qui in visita da loro nel 2010. Gli scritti di quei ragazzini di 14 anni, raccolti nel libro “A Mani Libere” restituirono loro il tempo che tutte le donne di casa Valarioti, a cominciare dalla mamma di Peppe, Caterina, allora ancora viva, dedicarono quel giorno con generosità a raccontare, a rispondere alle domande dei giovani scrittori. Gli alunni del “gemelli Careri”, per cui era stata scelta la storia di Valarioti, si erano presto appassionati alle vicende di questo ragazzo di Rosarno, mentre per mesi studiavano gli atti del lungo processo. E durante la visita alla famiglia, Peppe comparve loro nei tratti di figlio, fratello, scolaro, studente, che, assenti dai fascicoli di un procedimento penale per la sua uccisione, sono invece intatti nella memoria dei familiari.
Oggi sono i ventenni e trentenni di “Impronte e Ombre” che riempiono quella casa dalla porta aperta sulla strada assolata. Caterina non c’è più, ma ci sono le sorelle e le figlie a cui hanno dato il nome della nonna, declinato, per non confonderle, nei diminutivi di Katia, Cati, ecc.
Ci conducono subito al piano di sopra. Lì c’è la stanzetta di Peppe, il suo lettino, l’armadio con le sue giacche e i suoi pantaloni e pochi passi più in là c’è il suo studio.
Quello era il suo mondo: la macchina da scrivere, la sua radio, i suoi libri nell’armadio e il tavolino dove passava intere giornate a studiare. La finestra dà sulla strada. Tutti lo vedevano, tutti sapevano quanto amore avesse per la cultura. La foto che lo ritrae sorridente con i suoi grandi occhiali neri è stata scattata dalla sua fidanzataCarmelina a Tropea poche settimane prima che la sua giovane vita venisse spezzata.
Mi sembra tutto così familiare, come quando misi per la prima volta piede a Casa Memoria a Cinisi, la casa di un altro Peppino, il Peppino siciliano. Lui ucciso nel ’78, il Peppe calabrese ucciso nel 1980. Storie accomunate da anni turbolenti in Italia, e nelle loro vite di ragazzi dalla sete di verità e trasparenza, dal desiderio di conoscere e capire il qui ed ora, dall’urgenza di condividere e trasmettere i propri ideali attraverso l’insegnamento, l’apertura di un circolo culturale, una radio per parlare ai cittadini o una cooperativa per difendere i diritti dei contadini. In altre parole, cultura e militanza politica.
L’intelligenza fa paura alle mafie!
Una delle nipoti ci dice che lei non l’ha mai conosciuto, ma ne parla come se suo zio fosse ancora qui con noi. Una memoria vivida che si trasmette di madre in figlia e che arriva con tutta la sua forza dirompente fino ai pronipoti. Non riusciamo a non pensare che se Peppe, il maschio di famiglia, iniziò la lotta, per destino, una volta scomparso il padre, sono state le donne Valarioti a tenere la barricata in tutti questi decenni. Sono felici della nostra presenza, e ci spiegano che è insolito per loro accogliere visitatori. È stato istituito il Premio Valarioti, e la storia dello zio si studia nelle scuole di Rosarno, ma gli studenti non vengono a vedere la casa.Ecco perché un’anziana vicina si è soffermata sulla soglia a curiosare sui tanti ospiti di sabato, che tracimano dal numero civico 27.
Scendiamo e nella sala da pranzo ci sono già quattro vassoi pieni zeppi di pasticcini ad attenderci: la fame comincia a farsi sentire e poi non si può certo rifiutare un “bis” perché “pare male”. È una regola che vale non solo al Sud.
Facciamo fuori gli ultimi dolcetti mentre i ragazzi del corso di video-making iniziano, guidati da Emiliano, a cercare la luce e l’inquadratura adatta per le riprese.
Le donne della famiglia Valarioti si siedono tutte vicine nel divano verde scuro. All’inizio sono un po’ intimorite dalla telecamera, poi sentono che possono fidarsi e l’intervista si trasforma in una conversazione in cui ci regalano i loro momenti più belli con Peppe e la loro verità.
Come in un film, chiudo gli occhi e le vedo ragazzine mentre raccontano con gli occhi pieni di orgoglio di quando il fratello cominciò a scrivere a 4 anni, sul comodino di legno con il ripiano in marmo della sala da pranzo. Sapeva già tutte le “paroline” e così mamma lo portò alla scuola elementare a 5 anni, prima del tempo e quindi “contro la legge”, con l’aiuto di un’anziana maestra. Peppe continuò con questa determinazione fino alla laurea in Lettere Classiche a Messina, che conseguì con il massimo dei voti.E poi amava profondamente la sua terra, dove un tempo sorgeva la città di Medma, del VII secolo a. C., tanto che quando aprivano dei cantieri per gli scavi archeologici lui accorreva sempre a fotografare le meraviglie che emergevano dal sottosuolo. Ma studiava e amava il passato per sognare il futuro di quella terra, per costruire una realtà più giusta di quella che vedeva attorno a sé.
Era altruista in maniera a volte esagerata. La mamma si arrabbiava perché, nonostante fosse un insegnante precario, si faceva in quattro per aiutare le colleghe a passare i concorsi. Loro ne avevano più bisogno di lui: avevano già una famiglia da mantenere.
Peppe sapeva di essere indispensabile per i genitori e le sorelle. Anche quando andava in giro con i sindacati. I compagni più adulti dicevano “non ce lo portiamo a Peppe, che lui va piano”. Sì, lui andava piano, si guardava intorno, diceva “mi devo guardare. Non mi deve succedere nulla perché io sono il gioiello della famiglia”.
“Ed era vero: per noi era molto più che un fratello. Era l’amico del cuore, il fidanzato. Anche i nipotini lo adoravano. Era il nostro punto di riferimento. La sua opinione contava più di quella dei nostri mariti, anche quando dovevamo intraprendere degli affari. Lui c’era se c’era qualcosa da aggiustare. Sapeva fare qualsiasi lavoro. E poi, a lui non interessavano i pettegolezzi, cercava sempre di mettere pace con i parenti.”
Tutti gli volevano bene e si fidavano di lui. Quando si portò alle elezioni per la prima volta, andavano altri candidati nelle case a chiedere i voti ma la gente diceva “io voto a Peppe”.
“Nostra madre invece gli diceva chiaramente che non lo avrebbe votato. Noi eravamo donne “di chiesa” per noi votare “partito comunista” sarebbe stato un peccato!”
Ma una delle sorelle ci confessa che una volta arrivata alla cabina elettorale, e non sapendo per chi votare, tornò a casa per recuperare un “facsimile” di scheda elettorale e votò per Peppe. Tutti lo amavano. Era brillante, acuto e aveva a cuore il destino della sua gente.
“Avete mai pensato che avessero sbagliato bersaglio?” Mai! Anche se Peppe era alla sua prima esperienza politica, sebbene nei comizi parlasse della ndrangheta non aveva ancora fatto nomi e cognomi in piazza, ma il suo agire era rivolto ad assicurare la trasparenza e la legalità in ogni ambito della vita pubblica e negli ambienti lavorativi, in particolare nella Cooperativa delle arance “Rinascita”.
“Lo hanno lasciato solo.” “Lo hanno ammazzato perché lo hanno lasciato solo.”Qui lo sguardo si fa severo, le voci si accavallano. Le emozioni riaffiorano. “Solo”.
Lo hanno ammazzato perché avevano in visto in lui il pericolo di una persona che poteva fare strada, che poteva raggiungere alti livelli, magari diventare Ministro e cambiare davvero le cose.
La sera dell’11 giugno 1980, una delle sorelle si era affacciata al balcone e aveva visto Il fratello che guidava il corteo di festeggiamento per la vittoria del Pci. Era scesa con suo figlio di diciotto mesi e Peppe aveva portato il bimbo in braccio fino alla fine del corteo.
La sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile.
La vicenda giudiziaria è stata logorante per le sorelle. Si sono tutte costituite parte civile al processo, che si è concluso in un nonnulla. Nessuna condanna. Per il presunto mandante la sentenza è di “assoluzione per insufficienza di prove”. E il presunto killer nel frattempo è morto.
Un lutto lungo una vita. Su decisione di Caterina, nessuna festa per le ricorrenze di comunione, battesimo, festa di compleanno. Nessuna celebrazione di Natale o Pasqua.Le figlie sono riuscite a farle una festa a sorpresa per i suoi novant’anni. Ma la mamma non mangiò nemmeno una fetta di torta e non volle essere fotografata. È stato il suo modo di rimanere fedele al figlio, di non spostarsi neanche un millimetro dalla propria “barricata”, come uno sciopero privato e perenne di chi certo non era stata formata dai circoli del partito, e un lutto nel profondo, non religioso ma spirituale, consumato innanzitutto tra lei e la sua inseparabile copia del Vangelo del 1939, che le figlie hanno poi sepolto con lei.
Come si fa a vivere nella stessa cittadina in cui ti hanno ammazzato un figlio, un fratello, uno zio, senza che la verità sia stata sentenziata in una Corte, identificando colpevoli e scagionando chi non ha responsabilità?
Non sanno le sorelle e nipoti che ci descrivono la loro “resistenza” civile e silenziosa quando raccontano, semplicemente, che dalle amiche di gioventù ai compagni di scuola dei figli, dai fidanzati delle nipoti alle nuove colleghe di lavoro, si sono semplicemente tenuti lontani da “loro”. Come dire, rimane sempre una scelta: nessuna relazione è meglio di una frequentazione, anche casuale, se la verità non è stata accertata. E questo vale per tutte le generazioni.
“Quando andiamo in chiesa ci scambiamo il segno di pace solo tra di noi”. Una delle sorelle dice:”No, non è un bel vivere” “Se avessi potuto me ne sarei volata via lontano lontano…”. “Ma qui c’era la mamma, non volevo darle altri pensieri dopo tutto quello che ci era successo….”.
Le nipoti dicono che si può vivere bene a Rosarno, se stai attento a chi frequenti. Se se ne andranno sarà per cercare un lavoro, non perché vogliono scappare da questa città. Dai loro sguardi traspareil grande amore verso la famiglia ma anche il desiderio di realizzarsi professionalmente.
Un momento di silenzio, gli sguardi fissi. Per loro Peppe continua ad esistere. E noi dobbiamo fare uno sforzo per non pensare che sia al piano di sopra ad annuire a quanto sente, mentre legge uno dei suoi libri.
La memoria per loro è un fatto in parte intimo che deve continuare, nei pranzi della domenica, nel continuare a vivere in questa casa come se Peppe ci fosse ancora, ma sono anche consapevoli che la memoria va condivisa per non andare perduta. Molti dei suoi libri sono stati prestati ai giovani del paese per studiare, fare ricerche e poi nono sono stati più restituiti. Per il futuro sarebbe importante raccogliere, catalogare e digitalizzare i suoi scritti, le sue poesie, i suoi appunti, i suoi libri, le suefoto. Un ricordo a tutto tondo che possa servire da monito alle nuove generazioni in una città difficile come Rosarno.
Una città difficile che però è riuscita a stupirci.
Nel pomeriggio nella saletta degli scout ascoltiamo incantati le parole del pronipote di Valarioti che descrive Peppe come un cittadino rosarnese onesto, colto, amante della verità e della giustizia che mise poi la sua intelligenza a disposizione del partito comunista.
Un cittadino onesto. Non un eroe. Una lezione di cittadinanza attiva quella che riceviamo oggi da quel bambino dallo sguardo limpido, dal viso sereno, e dai suoi compagni scout. Quando sentono parlare del progetto dell’ARCI Provinciale per recuperare un’area verde di un terreno confiscato nei pressi del fiume, vogliono sapere dove sarà, quando inizieranno i lavori, e alcuni si propongono di dare una mano.Intelligenze e talenti al servizio del bene comune e con il sorriso sulle labbra. Ne andrebbe fiero Peppe. Noi ce ne torniamo a casa rinvigoriti dalla dolcezza, delicatezza ed entusiasmo di quei bambini. Non sciogliamo i lacci delle scarpe, perché il percorso per seguire altre impronte lasciate dalla memoria continua.