di Stefano Perri – Lo chiamavano il boss dei due mondi. Sul campo era conosciuto come Pasquale, ma il suo vero nome è Domenico Trimboli. Nato in Argentina, a Buenos Aires, ma originario di Natile di Careri, borgo di poche anime sulla costa jonica reggina, Trimboli non era uno ‘ndranghetista qualsiasi. Sulle sue tracce c’erano le Procure di mezzo mondo. Era considerato uno dei più influenti narcotrafficanti di cocaina al mondo, capace di spostare dal Sud America all’Europa tonnellate di ”dama bianca”. Un flusso di denaro in grado di rovesciare governi e spostare decisioni finanziarie e politiche ai più alti livelli.
Dall’inizio del 2015 Trimboli ha deciso di collaborare con la giustizia italiana. Acciuffatto nell’aprile del 2013 a Medellin, in Colombia, dopo 4 anni di latitanza, e successivamente estradato in italia nel luglio dell’anno scorso, il boss di origini calabresi ha deciso di vuotare il sacco. Un pentito eccellente. Le sue dichiarazioni rappresentano per le procure antimafia italiane una vera e propria miniera d’oro, ricca di spunti utili a far luce su decine e decine di affari conclusi dalla ‘ndrangheta con i produttori di coca in Sud America.
Ed è proprio seguendo le tracce fornite da Trimboli durante gli interrogatori che gli inquirenti sono riusciti a ricostruire il complesso sistema che consentiva agli uomini collegati al clan Mancuso di Vibo, di far arrivare in Italia, attraverso la Spagna, un flusso così ingente di sostanze stupefacenti. E’ proprio Trimboli a spiegare le dinamiche con le quali i calabresi concludevano gli affari con i narcos sudamericani.
I CODICI DEI NARCOS – Le comunicazioni, spiega il boss, avvenivano quasi esclusivamente tramite blackberry, con il sistema della chat criptate. Un classico ormai per i narcotrafficanti. Solo in qualche rarissimo caso si usava telefonare, ma per farlo i calabresi dovevano uscire dall’Italia, proprio per evitare i controlli serrati delle forze dell’ordine. Le schede degli smartphone venivano cambiate spesso. Ed ogni volta i calabresi fornivano il nuovo numero indicando una parola – in un caso ad esempio Florecidas – che serviva da chiave per lo scambio dei nuovi numeri di telefono. Il codice era 0123456789 e ad ogni lettera corrispondeva un numero. Un meccanismo per ‘rinfrescare’ ogni volta le conversazioni e tenerle al sicuro dalla caccia serrata della polizia telematica.
Ma non è tutto. I narcotrafficanti avevano ideato un altro metodo, tanto semplice quanto efficace, per aggirare i controlli degli inquirenti. Quello delle mail salvate in bozze. Ad un’unica casella email accedevano l’emittente ed il destinatario della comunicazione. Il messaggio non veniva mai inviato, ma semplicemente salvato nella cartella ”bozze”. L’interlocutore, dall’altra parte del mondo, poi accedeva alla casella mail e visualizzava il contenuto del messaggio per poi cancellarlo. In questo modo i narcos evitavano di lasciare ogni traccia delle loro comunicazioni.
I messaggi in ogni caso erano sempre criptati. Il pentito Trimboli rivela alcuni dei codici utilizzati dagli ‘ndranghetisti calabresi per comunicare con i narcos. ”I cinquanta ragazzi” erano in realtà 50 kg di cocaina e ”la signora Jolanda” era la nazione Olanda, che i narcos utilizzavano in qualche occasione come porta d’accesso all’Europa. ”Il cavallo” invece era la Spagna. Perché chiamarla ”toro” sarebbe stato troppo semplice.
FIUMI DI COCA DAL SUD AMERICA ALL’EUROPA – Le spedizioni partivano praticamente da tutto il Sud America: Colombia, Venezuela, Ecuador. Il boss dei due mondi si era costruito una rete di contatti tale da coprire l’intero continente. Trimboli spiega agli inquirenti che alcuni amici calabresi gli avevano chiesto se era possibile far arrivare la cocaina direttamente al porto di Gioia Tauro. I colombiani la vendevano a 19mila euro al Kg agli ‘ndranghetisti calabresi che poi l’avrebbero rivenduta a 36 mila euro. Il contatto calabrese era Fabrizio Cortese, insieme ai fratelli Antonio e Francesco, tutti soggetti arrestati oggi nell’ambito dell’operazione condotta dalla Dda di Catanzaro.
Il pentito racconta di due carichi, uno da 60kg ed uno da 180kg. Il primo andò a buon fine, fruttando al clan calabrese qualcosa come 360mila euro, mentre il secondo fu sequestrato proprio a Gioia Tauro. Dopo il sequestro Trimboli fu costretto a cambiare produttore. Seguirono dunque altre due spedizioni, una di 9 kg, una specie di carico di prova, ed una successiva di 91 kg. Per entrambi fu proprio Trimboli a garantire, rimanendo ”ostaggio” dei trafficanti colombiani. Quando il secondo carico fu sequestrato a Gioia Tauro i colombiani decisero di trattenerlo per cinque mesi. Anche i criminali, nel loro codice del (dis)onore, concepiscono la detenzione. Una ‘prigionia’, interrotta solo grazie al pagamento di alcuni debiti arretrati ed alla buona reputazione criminale di Trimboli tra i narcos colombiani.
Il racconto di Trimboli svela infine il tentativo della cosca di far arrivare in Italia un altro grosso carico di cocaina, circa 220 Kg, in questo caso attraverso il porto di Livorno. La polvere bianca in questo caso sarebbe stata occultata all’interno di alcuni tronchi appositamente preparati dai narcos, tanto che il contatto calabrese, secondo il racconto di Trimboli, dovette soggiornare 15 giorni in Venezuela per imparare come estrarre lo stupefacente. Un affare che però anche in questo caso andò in fumo, ma con il sospetto che Fabrizio avesse fatto il furbo sottraendo una parte dello stupefacente.
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