di Angela Panzera – Nonostante i suoi quattro ergastoli sulle spalle Natale Iamonte, il mammasantissima dell’omonima cosca di Melito Porto Salvo, in carcere non ci può stare. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano infatti, accogliendo l’istanza avanzata dai difensori Maria Caridi e Maurizio Punturieri, ha valutato che il superboss dell’area grecanica reggina non può scontare la sua pena in carcere perché le sue condizioni di salute sono gravi a causa di una malattia degenerativa.
Ristretto per anni al 41 bis- il regime di carcere duro, adesso l’anziano patriarca melitese lascerà il reparto ospedaliero dell’istituto penitenziario di Milano-Opera e tornerà a casa. Il suo curriculum criminale inizia nel 1998 con la condanna a Milano in corte d’Appello per 2 mesi di reclusione rimediati per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
Da quell’anno però il suo casellario giudiziario arriverà a scrivere per ben quattro volte la frase “fine pena mai” in virtù delle numerose condanne per mafia e omicidi attribuiti all’odierno patriarca ottantasettenne. Già il 15 giugno del 1994 il gip di Catania Antonino Ferrara aveva firmato un’ordinanza di custodia cautelare anche per il capo bastone, che all’epoca aveva 67 anni, in quanto ritenuto responsabile dell’omicidio dell’avvocato Nino D’uva, freddato nel suo studio a Messina il 6 maggio del 1986.
Le accuse provengono dal pentito Pasquale Barreca, che racconta all’allora sostituto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Verzera di avere appreso tutto da un nipote del vecchio capomafia mentre erano insieme in cella. L’ordine Iamonte lo ha dato dalla sua cella, dopo aver subito una condanna a 7 anni come capo della ’ndrina di Melito Porto Salvo davanti al tribunale di Reggio Calabria presieduto dal giudice Agostino Cordova. S’era fatto l’idea che le cose sarebbero andate diversamente perché in quel processo uno dei magistrati impegnati era Melchiorre Briguglio, il genero dell’avvocato D’Uva, e i suoi parenti erano “scesi” a Messina per parlare con il penalista chiedendogli di assumere la difesa, un’offerta respinta al mittente. In primo grado si becca l’ergastolo, ma in appello la pena scende a 24 anni. Arriverà però l’inchiesta “Rose rosse” della Distrettuale guidata da Salvo Boemi e con in testa il sostituto Verzera a contestagli, non solo il reato di 416 bis, ma anche gli omicidi di Antonio Favilla, avvenuto il 28 maggio del 1981 e quelli di Carmelo e Rodolfo Ambrogio, avvenuti fra il giugno e il settembre del 1982.
Gli arresti scattarono nell’aprile del 1996 e la Dia fece luce su ben 31 omicidi e tentati omicidi imputati alla cosca capeggiata da Don Natale. Una faida che ha lasciato decine di morti ammazzati dei clan Ambrogio, Iamonte, Barreca e Chila nonché fra le ndrine bovesi dei Vadalà e dei Talia. Adesso quindi Natale Iamonte tornerà a casa ma dei suoi sei figli, ad attenderlo ce ne sarà soltanto uno. Antonino, Carmelo, Remingo, Vincenzo e Giuseppe infatti sono in galera. Chi per associazione mafiosa, chi per estorsione. Chi per tutte e due le accuse.