di Claudio Cordova – Le guerre emotive, interiori, di una donna, i drammi e le pressioni derivanti dall’essere
cresciuta in un contesto di ‘ndrangheta, la paura di perdere tutto ciò che si ama. Dietro la scelta di Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce, di ritornare a collaborare con la Dda di Reggio Calabria, si nascondono vicende umane molto complesse.
La donna viene arrestata nell’ambito dell’operazione “All inside” che, appena due giorni fa, ha registrato, nello stralcio degli abbreviati, condanne pesantissime e la disposizione del Gup che la cosca Pesce risarcisca il Comune di Rosarno con 50 milioni di euro. Il 14 ottobre 2010, Giuseppina Pesce inizia a collaborare con il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti. La Pesce firma diversi verbali d’interrogatorio e le sue dichiarazioni contribuiscono al sequestro di ingenti patrimoni nei confronti del clan di Rosarno, tra cui alcune squadre di calcio. Il 2 aprile 2011, la donna scrive una lettera al Gip di Reggio Calabria, paventando la circostanza che i magistrati della Dda reggina l’abbiano costretta a collaborare. Due giorni dopo, il pm Cerreti, ignara della lettera (che verrà trasmessa in Procura solo una settimana dopo) interroga nuovamente la Pesce, che risponde tranquillamente. Il “gran rifiuto” arriva l’11 aprile, quando la donna non firma il verbale di fine collaborazione (i pentiti hanno a disposizione 180 giorni per dichiarare ciò che sanno). Segnale inconfutabile che qualcosa di strano stia accadendo è la scelta, da parte della donna, di revocare il proprio legale, nominando l’avvocato Giuseppe Madia, che ha assistito, in passato, i membri della famiglia Pesce. Il 10 giugno Giuseppina Pesce viene arrestata per evasione dagli arresti domiciliari.
Quando, però, la storia sembra aver imboccato una strada problematica per la donna, arriva la svolta.
Il 24 e il 25 giugno, Giuseppina Pesce scrive due lettere al pm Alessandra Cerreti, manifestando la propria volontà di riprendere la collaborazione con la giustizia: “Ribadisco le mie scuse per la mia titubanza, consapevole di aver creato grosse difficoltà e inutili perdite di tempo” scrive il 24 giugno. “Spero”, “sperando”, sono parole ricorrenti nelle lettere della Pesce, che chiede più volte scusa al pm Cerreti e a tutto l’Ufficio di Procura. La donna ricomincia a collaborare, ufficialmente, il 7 luglio: “Sono stata indotta a retrocedere dalla mia collaborazione in quanto i miei figli non accettavano la nuova situazione” esordisce la donna. La Pesce, madre di tre bambini, spiega al procuratore aggiunto Michele Prestipino e al sostituto Alessandra Cerreti i motivi che la indussero a recedere dalla volontà di collaborare: “Durante la collaborazione sentivo telefonicamente mio suocero, al quale avevo parlato delle mie difficoltà. Mio suocero mi ha offerto di pagare le spese legali e di provvedere a tutte le mie necessità economiche ove avessi deciso di interrompere la collaborazione. Certamente, se avessi continuato a collaborare con l’Autorità Giudiziaria non avrei avuto alcun aiuto economico da mio suocero”.
Un rapporto drammatico, quello che la donna ha vissuto nell’ultimo anno con la famiglia: “Mia figlia Angela mi ha scritto di non condividere la mia scelta, accusandomi di “sputare nel piatto in cui mangio”. Angela mi ha pure scritto che non sarebbe più venuta a trovarmi. Nonostante ciò, io le ho risposto che sarei andata avanti per la mia strada. Dopo una settimana mia figlia mi ha scritto di nuovo, dicendomi che era costretta dai familiari a scrivere quella lettera. Mio marito Palaia Rocco mi ha scritto una lettera minacciosa, con riferimento alla mia relazione extraconiugale”. Una situazione difficile da sopportare, una situazione in cui i figli della donna hanno pagato per colpe che non hanno: “Nel corso dei colloqui in carcere con i miei figli, ho appreso che i parenti di mio marito li maltrattano: mia cognata li ha cacciati da casa sua e li ha mandati da mio suocero. Non gli danno da mangiare adducendo di non avere più soldi a causa del pagamento del mio difensore. Il piccolo Gaetano mi ha raccontato che viene picchiato dal nonno con una cintura, circostanza confermata dalla mia figlia maggiore”.
Storie tristi, per certi versi inquietanti, che proiettano, totalmente, all’interno di un contesto, quello della ‘ndrangheta, per giunta in un piccolo centro come Rosarno, fatto di ristrettezza culturale, prepotenza e sofferenza. Lo stesso contesto vissuto da un’altra donna di ‘ndrangheta, Maria Concetta Cacciola, imparentata con il clan Bellocco, morta alcune settimane fa in seguito a un presunto suicidio, dopo la scelta di collaborare, in qualità di testimone, con i Carabinieri.
E la lettera più toccante è proprio quella che Giuseppina Pesce scrive il 23 agosto 2011, pochi giorni dopo il presunto suicidio di Maria Concetta Cacciola, cui la Pesce era legata da sinceri rapporti d’affetto, oltre che di lontana parentela. La Pesce spiega i motivi che l’hanno spinta a intraprendere la collaborazione con la giustizia, ribellandosi, di fatto, a un ambiente, quello della propria famiglia, in cui gli appartenenti respirano aria e ‘ndrangheta fin dai primi anni di vita: “Ho espresso la mia volontà di iniziare questo percorso, spinta dall’amore di madre e dal desiderio di poter avere anche io una vita migliore, lontano dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Ero e sono convinta che sia la scelta giusta, dal momento che per scelte di vita di familiari e congiunti, siamo sempre stati segnati da una vita piena di sofferenza e difficoltà e soprattutto mancanza di coraggio per paura delle conseguenze”. Una scelta che, però, ha subito una brusca fermata, con la conseguente decisione di interrompere i contatti con i magistrati. Scelta che la Pesce riconduce soprattutto all’affetto nei confronti dei tre figli: “Ho pensato di non avere il diritto di privarli anche del padre che loro cercavano con insistenza”. Da qui, dunque, anche per via della pressione della famiglia, la valutazione di interrompere il rapporto di collaborazione con gli inquirenti che indagavano sulle attività illecite del clan Pesce: “I giorni dopo li ho vissuti come se ogni giorno che passava sarebbe stato l’ultimo con loro (i figli, ndr)”.
Il tempo passa e nel corso di uno dei tanti spostamenti in auto, la donna matura la decisione definitiva, schierarsi dalla parte della giustizia. Ancora dalla lettera del 23 agosto scorso: “Ho capito l’importanza della motivazione per cui ho collaborato: il futuro dei bambini e l’amore per un uomo che mi ama per quello che sono e non per il cognome che porto. Oggi anche se come collaboratrice posso aver perso di credibilità, come donna tutte queste esperienze mi hanno rafforzata e cosa ancor più importante mi hanno fatto ritrovare la fiducia in me stessa, i miei bambini, il mio compagno (che devo ammettere c’è sempre stato) e soprattutto mia figlia di 16 anni che in una lettera del 27 luglio mi ha scritto “Mamma io voglio stare con te, io non voglio vivere con gli altri, tu sei la mia mamma e senza di te non sono niente, qualsiasi scelta farai io ti seguirò” […] Sento che forse in fondo non sono stata poi così egoista, ma che se fossi stata più coraggiosa forse oggi stavo al mare con i bambini”.
Pensieri e speranze che fanno il paio con le inaspettate dichiarazioni rese in aula, appena due giorni fa, da un altro collaboratore, Consolato Villani, che ha esortato gli affiliati a collaborare con la giustizia. Anche Giuseppina Pesce è di questo avviso: “Spero anche che molte persone come me che si trovano in queste situazioni trovino il coraggio di ribellarsi. Io ho trovato la forza di prendere una decisione così importante mettendomi contro una famiglia molto temuta e potente che difficilmente perdona, sapendo quale può essere il rischio per me e per le persone che mi staranno vicina, ma alla fine l’ho fatto”.