di Grazia Candido (foto di Antonio Sollazzo) – La ricerca affannosa di un padre che vuole ritrovare suo figlio, quell’atteso erede al quale donargli l’affetto represso negli anni, ma anche la necessità di un uomo oramai maturo, che pensa di guarire
il malessere di un’anima tormentata dal rimorso. “I Casi sono due” commedia in due atti di Armando Curcio messa in scena ieri sera al teatro “Francesco Cilea” (e in replica oggi alle ore 21 e domani alle ore 17,30), sottolinea le fragilità umane, quelle che abbiamo tutti e che spesso, cerchiamo di nascondere per paura o timore di essere giudicati, che non possono essere però, sostituite da ricchezze o potere. Smorzate da toni e battute allegre, ritmi incalzanti e da un piacevole sottofondo musicale che mette in risalto i momenti clou della pièce, la compagnia del Teatro Diana OR.I.S con il grande maestro Carlo Giuffrè e una signora della scena Angela Pagano, travolgono il pubblico dello Stretto, dando vita ad uno dei successi di Eduardo e Peppino De Filippo riproposto con una straordinaria comicità. Nei panni di Ottavio, il Barone del Duca, lo straordinario Carlo Giuffrè (nel doppio ruolo di attore e di regista), è riuscito a tirar fuori un lavoro teatrale dove si uniscono perfettamente intelligenza, comicità e malinconia. Ne è un esempio quando il barone, tormentato dai suoi dolori e dalle pillole curative dei suoi tanti mali, sentendosi incompreso, fa le “prove della morte” e dice ai suoi cari: “Com’è brutto quando stai male e non ti crede nessuno. Sulla mia lapide ci sarà scritto: ve l’avevo detto che non stavo bene”.
Il pubblico ride, segue attentamente passo dopo passo, l’avvincente storia ambientata a Napoli, nell’elegante casa del barone Ottavio che incarica un investigatore di ritrovare un suo figlio illegittimo, nato da una passione giovanile e prematrimoniale per una cantante, e, partecipa ad uno spettacolo che in realtà, è una farsa dal ritmo scoppiettante che si serve della comicità dell’equivoco e di situazione per esaltare le indiscusse qualità attoriali di Carlo Giuffrè e di Angela Pagano (nei panni di Aspasia, moglie del barone con l’amore ossessivo per i cani), custodi di una tecnica attoriale straordinaria, piena di sfumature e registri che affonda le proprie radici nell’inesauribile tradizione del teatro comico napoletano.
In quell’incredibile realtà descritta, spicca pur con toni buffoneschi, assurdi, spensierati, l’aspetto sgraziatamente umano di un uomo ed una donna che avrebbero voluto vedere sempre aperta la tenda di quella finestra che affaccia sul golfo di Napoli, irradiata dal calore e dalla luce del sole, ma chiusa per tanti anni e riaperta solo per poco tempo, quando una passeggera illusione gli ha fatto credere di poter essere finalmente dei genitori.
Ma “i sentimenti non vengono dal sangue ma dal cuore – dice alla fine il barone quando il vero figlio Gaetano, interpretato dal travolgente Ernesto Lama, scontroso e rozzo cuoco al servizio dei signori, ritorna al suo vecchio stile di vita- A volte, uno vuole più bene ad un amico che ad un fratello che ha il tuo stesso sangue”.
La tenda si chiude portandosi via la speranza di una nuova vita ma poi, è la luce dell’amore e dell’intelligenza dei protagonisti che nel riaprirla, sottolineano un aspetto fondamentale dell’esistenza umana: si può essere felici con poco, non importa essere un genitore, l’affetto che uno ha dentro può riversarlo prendendosi cura e amando un essere più piccolo ma tanto tenero, come un cane.