di Enrico Costa* – Si, è vero, questa terra non puoi non amarla. Ma perché mai? Ognuno ha le sue proprie ragioni. C’è chi predilige i paesaggi irripetibili,
che ti evocano il nostro essere mediterranei, figli del mito greco sullo Stretto, ma figli anche di Paolo, che qui, dopo lo sbarco siciliano a Siracusa, sbarcò sul suolo dell’Europa continentale (o dell’Italia peninsulare, come più ci piace), e la Storia cominciò inesorabilmente a cambiare. C’è poi chi ama le testimonianze del passato che si sono tradotte nei beni culturali dal valore inestimabile, e che farebbero la fortuna di territori che, meglio tutelati, li saprebbero valorizzare davvero.
C’è chi di questa terra ama la sua gente, i suoi figli. Un vero valore aggiunto, che non è ne facile né popolare riconoscere quando si tende a generalizzare, quando si tende ad identificare una parte con il tutto. Quando la piovra mafiosa dilaga dappertutto.
Quando si identificano i protagonisti degli episodi più eclatanti (la solita Duisburg? Si. Ma non solo, purtroppo c’è dell’altro) con le centinaia di migliaia di cittadini onesti, generosi, che ti aprono il cuore.
Certo, non te lo aprono il loro cuore, anzi lo rinserrano se per anni, e loro lo sanno, non appena arrivi non vedi l’ora di ripartirtene, se sei sempre troppo impegnato, se giochi a fare il superiore, se ti preoccupi soltanto che gli altri ti ammirino sempre e comunque, e ti stimino senza condizioni, qualsiasi cosa tu faccia, soltanto perché esisti, e soltanto perché la vita, più o meno casualmente, ti ha portato qui.
Possono invece aprirtelo, dividerlo in due e spalancarlo il loro cuore, se diventi uno di loro, se questa terra, al di fuor di retorica, diventa la tua terra, e se i problemi di questa terra diventano anche i tuoi.
Se ti riconoscono vogliono condividere, senza neanche più chiederti di dove sei?, il lavoro quotidiano, il procedere scientifico, l’aspirazione a migliorare, senza fermarsi. Senza stancarsi.
E ti può accadere di dividere gioie e dolori, e dolori e gioie.
Se ti invitano devi andare. Ti conviene se credi che non hai mai imparato abbastanza, se ritieni che la vita devi viverla giorno dopo giorno, con le sue delusioni e le sue gratificazioni.
Quindi arriva una domenica di primi bagni e, perché no?, di prime comunioni. Tocca a te scegliere e, fatta questa seconda opzione, si parte con destinazione Melito di Porto Salvo.
Lungo le strade di un paese di senzamemoria, e la memoria andrebbe coltivata mentre a molti conviene parecchio non farlo, ti accorgi che la memoria dei garibaldini e del loro sbarco sembra essere lontanissima, ti viene da pensare ad altre due date: un Venerdì apparentemente come tutti gli altri, il 6 Giugno 2008, e la vigilia di una festa, il giorno prima del Primo Maggio, il Giovedì 30 Aprile 2009, un pomeriggio come un altro. Sono date tra loro vicine, vicinissime, troppo vicine a noi per averle potute dimenticare. O forse ce le ricorderemo ancora perché hanno una caratteristica comune nell’ambito della tragedia, anche se gli esiti sono stati di segno molto diverso: ma in entrambi i casi dal male è scaturita la speranza.
Ti dirigi alla messa di Prima Comunione e non puoi non percorrere il Viale Garibaldi, e quando sei lì non puoi non pensare al corpo riverso di un Amico, Angelo Curatola, preso in pieno, di spalle, da una motocicletta.
Non puoi non pensarci perché i manifesti di lutto sono ancora lì, tutti, non sono ancora sbiaditi o ricoperti da altri manifesti, e non puoi dimenticarti del popolo senza colore politico, di Bagaladi e di tutta l’Area Grecanica, con i suoi Sindaci, tutti, venuti a stringersi attorno ad un altro Sindaco ed ai suoi familiari. A piangere un uomo di grandi virtù, un uomo vero e non un santino.
Tutti uniti nella speranza del cambiamento possibile. Si, possibile. Anche qui.
Nel momento in cui sali i pochi gradini della bella e dignitosa facciata ancora razionalista di San Giuseppe ed entri in Chiesa, sei preso anche tu dalla gioia di bambini e familiari, tutti in festa, e quasi ti dimentichi delle giornate della tragedia di Angelo Curatola, iniziate quel Giovedì 30 Aprile 2009 su quel Viale Garibaldi che hai appena lasciato, e non pensi neanche più ad un’altra brutta data, il Venerdì 6 Giugno 2008, quasi un anno fa.
Sei preso dalla funzione liturgica e quasi non ti rendi conto che fra le numerose offerte dei genitori, che portano all’altare pane e vino ed ancora altri doni, ce n’è uno speciale, un calice offerto dalla mamma di uno dei piccoli catecumeni, presentato come scioglimento di un voto per grazia ricevuta.
Non ti chiedi neanche di quale grazia si tratti, sarà un fatto privato che tale deve rimanere, che non ti riguarda personalmente se non come membro della comunità, ed invece vieni informato con una normalità che ti agghiaccia che non ci sono gemme a decorare quel calice d’oro, ma un proiettile …
E allora noti, nella più totale normalità, che in chiesa c’è un bambino di quattro/cinque anni con una vistosa cicatrice che ti fa pensare a qualcosa che ha coinvolto anche te, quel Venerdì 6 Giugno 2008 quando, quasi un anno fa, durante una sparatoria, proprio qui a Melito Porto Salvo, quando un bambino di tre anni, il piccolo Antonio L. è stato raggiunto da un proiettile. Ferito molto gravemente, anche se con nessuna lesione al sistema nervoso, da una pallottola “vagante” che è entrata dalla bocca e si è fermata conficcandosi alla base del cranio, in corrispondenza della nuca.
Infatti davanti al Santuario di Porto Salvo, sul lungomare, intercettato il pregiudicato da colpire, un sicario sconosciuto gli aveva sparato da uno scooter incurante che nelle vicinanze ci fossero moltissimi bambini, oltre 700, lì convenuti per una recita scolastica di fine anno.
Dopo una odissea terribile, e dopo la delicatissima operazione di estrazione del proiettile, a Novembre, Antonino è tornato a casa ed oggi era con noi. Vivacissimo, come lo sono i bambini di quell’età, un bellissimo dono per tutti, un miracolo per i due straordinari genitori.
Avrebbero potuto tenerselo quel proiettile, conservarselo come un simbolo d’odio, guardarselo continuamente con risentimento come avessero sotto gli occhi l’ignoto sparatore. Come un’ossessione. Invece no, hanno rielaborato sofferenza e dolore in una prospettiva di fede segnata dalla speranza, trasformando quello strumento di morte in testimone quotidiano della miracolosa trasformazione del vino in sangue, compartecipe del miracoloso mistero della salvezza.
Una grande lezione per tutti.
Come fai questa terra speciale a non amarla? Qui più che altrove, non abbiamo doveri maggiori sul piano etico oltre che scientifico, verso i figli speciali di questa terra che li affida proprio a noi?
*Presidente corso di laurea urbanistica Università Mediterranea